martedì 13 luglio 2021

e la regina dov'è?

 

Milioni di persone hanno assistito in diretta allo spettacolo della premiazione dei recenti campionati europei di calcio e hanno potuto vedere il gesto incredibile dei calciatori della nazionale inglese che si toglievano dal collo la medaglia appena ricevuta, alcuni quasi senza finire di indossarla, come fosse radioattiva, mentre il pubblico locale aveva già abbandonato lo stadio e i rappresentanti delle istituzioni inglesi – forse già assenti anche loro – ben si guardavano da andare come minimo a stringere la mano al nostro Presidente della Repubblica. 
L'indecorosa sfilata davanti alla quale sono sicuro che molti di noi avranno trattenuto il fiato increduli e stupiti è stata per fortuna rapida, è andata avanti giusto per il tempo necessario per soddisfare il copione ma si è trattato comunque di un tempo enorme, non più cancellabile, di un tempo sufficientemente lungo per dipingere a tinte fosche il già precario scenario contemporaneo delle relazioni tra i popoli, tra gli esseri umani "diversi da noi" e ora addirittura tra gli "sportivi". 
Qualcuno potrebbe dire che si è trattato solo una partita di calcio, che nel calcio queste cose succedono, che in fondo è una cosa marginale. 
Non sono d'accordo. Per niente.
Questi sono segni caratterizzanti di una civiltà, segni indelebili, drammaticamente istruttivi e formativi, segni resi ancora più pesanti dal silenzio istituzionale in cui si sono manifestati sia nell'immediato, sia – a mia conoscenza – nel dopo.
Sì, perché se di fronte a quello "spettacolo" da una parte c'eravamo noi, milioni e milioni di persone di ogni età e nazionalità che guardavano la scena da casa o dalle piazze senza poter fare nulla di clamoroso, lì sul campo c'erano delle persone, rappresentanti di istituzioni internazionali, che potevano e dovevano assolutamente fare qualcosa, interrompere quello scempio alla lealtà sportiva – che dovrebbe insegnarci anche qualcosa della lealtà nella vita – per lanciare un segnale di salvezza, non dico per noi adulti, ma almeno per tutti quei bambini e bambine che ogni giorno si avvicinano allo sport con passione e animo leggero, anche in Inghilterra.
Tra queste persone citerei innanzitutto l'uomo che consegnava le medaglie – non mi interessa nemmeno il suo nome – ma di sicuro era un "capo", uno che è entrato in campo in pompa magna, ostentando con la sua camminata a natiche strette tutto il potere che quei miliardi di euro presi a pedate gli conferiscono. 
E lui cosa ha fatto? Nulla! 
È stato letteralmente schifato medaglia dopo medaglia dimenticandosi di rappresentare un'istituzione popolarissima, il calcio europeo, che in altre sedi sicuramente lui stesso si sarà gloriato di definire come un mondo di amicizia, lealtà, rispetto degli avversari, luogo di crescita e di insegnamento di ideali sani per i nostri giovani.
Non ci siamo caro signore. 
Rappresentare significa fare qualcosa anche per conto degli altri che rappresentiamo, significa prendere parte, significa avere coraggio delle proprie idee e difenderle in ogni circostanza.
Lei doveva afferrarli uno a uno per il collo della maglietta e rificcargli quella medaglia al collo, oppure sospenderne la distribuzione. Doveva chiamare l'allenatore e i responsabili di quei signori così sprezzanti e costringerli a fare qualcosa. Tutto, ma non continuare come una macchinetta a farci assistere a quello schifo. Lei non ci ha rappresentato correttamente.
E fuori dal terreno di gioco chi c'era? Qualcuno delle istituzioni sarà rimasto in tribuna a rappresentare il calcio inglese, la nazione inglese, il popolo inglese? Forse no, forse se ne erano addirittura andati, certamente non ho notizia di azioni riparatrici in tal senso. E ormai è già troppo tardi.
E la regina? 
La regina dov'era e dov'è? 
Certo, comprendo che assistere alla partita fosse troppo impegnativo per una donna anziana, ma dopo? Avrà avuto un televisore dove guardare la partita o una registrazione del fattaccio? Qualcuno glielo ha raccontato o glielo hanno tenuto nascosto. Beh, in tal caso glielo dico io cara signora: i suoi ragazzi le hanno fatto fare una pessima figura.
Come si sarà risvegliata il giorno dopo questa anacronistica figura che vive di etichette, regole e compostezza dopo che questi valori sono stati così mortificati proprio nella sua capitale? Non erano suoi sudditi quei maleducati in pantaloncini? Li ha richiamati? Ne ha chiesto l'espulsione dalla federazione? Ha presentato una lettera ufficiale di scuse al nostro Presidente repubblicano? Ha fatto uno dei suoi famosi discorsi alla nazione – alla nazione dei bambini e delle bambine inglesi  intendo – per spiegare loro che quello è un brutto episodio da cancellare e che ora quei tipi non giocheranno più a pallone perché non ne sono moralmente all'altezza. 
Non ne ho notizia. E questa non è una buona notizia.
Se io fossi la regina... farei qualcosa di grande. 
Almeno per i bambini le bambine inglesi, se non si vuole allargare troppo.

martedì 1 dicembre 2020

Racconto di una ferita (mentre la ferita è ancora aperta).


Raccontare con la fotografia i centri storici mi ha attratto fin dagli anni della mia gioventù, prima ancora dell'ormai quarantenne terremoto. A spingermi in questa dimensione spazio-temporale credo sia stata la mia passione per il "silenzio narratore", tipico della fotografia di ricerca, unita poi alla formazione da archeologo sopraggiunta nei primi anni '80. Il fine mi sembrava nobile: la ricerca del più antico nascosto più o meno consapevolmente sotto al più moderno per dargli ancora una possibilità di vita, di espressione, di testimonianza, di insegnamento. Nello svolgere questo percorso ho naturalmente appreso molte cose ma sopratutto mi sono persuaso che le cose si vedono molto meglio – e quindi si riescono a raccontare con forza anche senza tante parole – attraverso il mirino di un apparecchio fotografico, rispetto allo sguardo comune a occhio nudo, diciamo così. Questo perché i frammenti di un passato più o meno lontano, isolati dai quattro bordi neri di quella piccola camera di osservazione posta in testa alle mie macchine fotografiche, risplendevano di una luce propria che conferiva loro in più esplicito valore. Anche agli occhi di quanti passavano e non vedevano ma che avrebbero visto le mie stampe fotografiche. Col passare degli anni questa mia attività, divenuta in certi periodi quasi un'ossessione, è andata scemando fino ad esaurirsi – irresponsabilmente, lo devo ammettere – sotto i colpi dell'indifferenza e della diminuita sensibilità dei più moderni cittadini e dei più moderni cittadini-amministratori rispetto ai valori invece eterni insiti nei beni culturali nel loro complesso e quindi primariamente nei centri storici. 

La fotografia non aiuta a leggere le complessità di un disegno urbanistico e tanto meno riesce a farlo nello stretto di un centro storico come i Pianesi di Cava de' Tirreni che costituiscono uno dei nuclei più caratteristici e antichi della città composita. Gli spazi sono spesso angusti, articolati, intersecati, nascosti, ma portatori di storia e di storie che nei centri detti non casualmente "storici", ci stanno bene e ci devono rimanere per salvare un bene essenziale: la nostra identità. La perdita di sensibilità di cui parlavo prima ha invece comportato un abbassamento sulla bilancia dei valori contemporanei del valore di questa identità, inducendo alla conseguente ammissibilità della cancellazione. Cancellazione di superfici, di tecniche murarie, di volumi, di luci, di singoli elementi architettonici e decorativi, di omogeneità tra gli elementi di arredo, di percorsi per gli spostamenti, di verde, di testimonianze che l'abbandono aveva ridotto minime ma un tempo non lo erano, di bellezza del colpo d'occhio.

Tutto ciò è condensato spettacolarmente nell'ampio cratere che ho visto ieri percorrendo la via Formosa, praticato per la creazione di un garage, mi hanno detto, ma non mi importa nemmeno sapere se questo dettaglio sia veritiero o meno. Troneggiante una ruspa su uno sfondo che lasciava emergere – al posto del romantico muro antico con esedra, brutalmente abbattuti – pareti possenti di cemento armato, mi sono tornati in mente gli scatti che facevo da ragazzo quando si abbattevano e si sfregiavano edifici antichi e testimonianze di varia tipologia per far spazio nella nostra città a una modernità quanto meno discutibile. 

Ma perché racconto ancora oggi tutto questo? In fondo in fondo... non lo so neppure io. In un capovolgimento così spettrale dei valori che oggi sembrano importanti una testimonianza del genere non credo possa avere un effetto significativo né su quello che si è già abbattuto né su quello che ancora rimane più o meno in piedi. Forse lo racconto per quei bambine quelle bambine che ancora potrebbero capirlo quando qualche maestra volenterosa parlerà loro della storia e di quello strano concetto dell'identità.




martedì 28 aprile 2020

DOPO. Quasi uno scioglilingua.




Esiste un DOPO che inesorabile sarà figlio di un PRIMA e noi li osserviamo succedersi giorno dopo giorno da quel DURANTE che viviamo come OGGI. Quasi uno scioglilingua. Un gioco di parole che traduce il principio ispiratore della mia fotografia sociale, della mia vita d'artista e della scelta di utilizzare il linguaggio visuale come base di una narrazione che altrimenti non sarei riuscito ad esprimere e che ho ritenuto importante esprimere. 
La fotografia l'ho scelta – forse inconsciamente – perché quelle immagini create attraverso la fotocamera mi sono apparse fin da ragazzo potenti, vere, reali, oggettive, testimoni e testimoniali. L'ho scelta fin dal 1978 perché conteneva qualcosa che per me era più forte delle parole, un mezzo a me congeniale per esprimermi dal mio angolo di ragazzo timido. 
La narrazione fotografica mi piace perché è un sistema. Non è un mazzo di episodi isolati – anche esteticamente rilevanti – raccolti in un album, ma una catena che lega fatti, scene, momenti che risalgono al DURANTE, cioè dell'epoca in cui un dato fenomeno è ancora in via di formazione, e che si sposteranno in pochi secondi in un DOPO inesorabile dal quale, guardandoli, si rivedrà – a volerlo vedere – quel PRIMA in cui c'eravamo ed eravamo vivi. Come ogni racconto veritiero. Come la storia. 
Per coltivare questo interesse per lo sguardo-che-può-raccontare qualcosa mentre sta nascendo sotto i nostri occhi ho cercato di sollevare l’inquadratura, cambiando spesso prospettiva, ottica, punto di messa a fuoco e mi sono persuaso che i singoli fenomeni dell'OGGI non hanno nulla di interessante se li distacchiamo dal sistema che li genera, li plasma e li condiziona a prescindere da noi. 
Una volta, in un'antica e solenne chiesa napoletana, ho ascoltato un prete che diceva, con ardore, quasi con furore, che "Gesù era di parte" "Gesù ha deciso da che parte stare". Anche a me che non sono credente quelle parole sono sembrate subito straordinarie, illuminanti, inusuali. Da che parte stare? Anche noi, fatte le dovute proporzioni, dobbiamo stare da una parte, prendere una posizione di parte. Essere partigiani. Le posizioni ambigue e neutre sono dunque colpevoli. 
Attraverso la mia fotografia sociale ho scelto di stare dalla parte del silenzio, delle cose non dette, dello sguardo girato altrove e ho scelto di raccontare storie complesse, stratificate, non immediate, perché le storie semplici, spettacolari, estetiche mi apparivano incomplete, bugiarde, non di parte appunto. Tuttavia, per fare questo ho dovuto accettare il peso di una gabbia – prospettica e di pensiero, individuale e sociale – che si è rivelata ingombrante, pesante, a volte troppo pesante da sopportare, una gabbia che rischia di rendere il racconto del "sistema-mentre-il-sistema-si-forma", difficilmente attuabile, pesantissimo, in alcuni casi può risultare addirittura fatale, come la storia di Pasolini ci insegna. 
L’uomo contemporaneo non è cieco e non è sordo. Percepisce, vagamente o distintamente, i legami che tengono stretti gli embrioni dei fenomeni fin dal momento in cui appaiono per la prima volta: nulla ci è stato taciuto. Sappiamo tutto, ma troppo spesso non abbiamo provato o non abbiamo voluto mettere a fuoco questo legame tra il PRIMA e il DOPO, forse per dolore, debolezza, vigliaccheria, malafede, ignoranza. Non abbiamo tenuto in nessun conto questo processo di sguardo vigile sul DURANTE come un bene primario anche perché abbiamo sperimentato che le conseguenze di questa parte non presa appariranno forse nel DOPO e quindi non sono apparentemente affari nostri, nessuno ci chiamerà a rispondere di niente o ci chiamerà a rispondere quando saremo vecchi o morti. 
E così il racconto globale della contemporaneità si scrive da solo, sgrammaticato, sconclusionato, senza una trama apparente, senza giustizia. Ci appare, visto dal DOPO, incomprensibile, irresponsabile, sciagurato.
Questa epidemia imprevista, figlia di tante decisioni del PRIMA, ci ha mostrato la nostra nudità, ci ha svelato la nostra ottusità nel vivere il DURANTE senza pensare al DOPO e solo ora che siamo nudi e chiusi in casa diciamo non senza ipocrisia che è necessario cambiare, mentre tutte le cose che guardiamo ora ci appaiono sbagliate, colpevoli, dannose, irresponsabili.
Eppure noi c’eravano, abbiamo attraversato quel PRIMA seguendo il percorso della massa, abbiamo sostituito e confuso il benessere collettivo con il profitto, anzi con il profitto a ogni costo, due categorie che parlano lingue diverse, quella dei diritti e dell'uguaglianza da una parte e quella dell'esclusione e dei privilegi dall'altra anche se questi ultimi si sono dimostrati spesso effimeri, superficiali, caduchi e sono durati solo qualche attimo, quell'attimo in cui avremmo potuto e dovuto scattare quella foto del PRIMA inquadrata nel DURANTE per costruire un DOPO diverso.  Quasi uno scioglilingua.
   
Napoli, 25 aprile 2020







mercoledì 25 marzo 2020

Che bel fior!

Scrivo in memoria e in ringraziamento a Patrizia Reso scomparsa in questi giorni a Cava. In questi giorni sconvolti in cui tutto è saltato e si è fermato, come il suo respiro. Le dedico un verso di Bella ciao e una delle mie foto più intime scattate in uno dei roseti più belli del mondo, quello della Villa Reale di Monza. Perché ci vogliono pensieri alti quando si onora una persona, una donna che è stata ai miei occhi innanzitutto una militante. Militante al posto mio, al posto tuo, al posto di tanti e di tante che l'hanno guardata fare ammirandola, ignorandola o non comprendendola affatto, a seconda della nostra capacità di vedere. Le dedico dei fiori bellissimi perché me la ricordo quel 25 aprile di due anni fa a cantare Bella ciao nella Villa Comunale di Cava mentre si piantava un acero a cavesi resistenti, cavesi partigiani che nemmeno sapevamo che ci fossero stati, ad altri uomini e donne che avevano militato al posto mio, al posto tuo e al posto di tanti e tante che li avevano solo guardati morire e che Patrizia aveva contribuito a farci conoscere. La militanza è quella disciplina dello spirito che possiamo raccogliere da Patrizia e farle onore mettendola al primo posto delle nostre vicende future, del nostro sentire, del nostro vivere, se vogliamo che domani sia migliore di ieri. La militanza che non è "mettersi in politica" ma "fare politica", cioè pensare con i mezzi a nostra disposizione a tutte quelle azioni e quei gesti grandi e piccoli che possiamo compiere in nome di altri e di altre, per aiutare, salvare, incoraggiare, far progradire, proteggere, difendere la collettività ma anche allontanare, combattere, mettere in condizione di non nuocere chi invece lotta contro di essa, contro i diritti e per i privilegi di pochi. Paradossalmente, la ricordo come una militante antifascista ad oltre 70 anni dalla fine del fascismo, a significare che non abbiamo fatto abbastanza per non doverne parlare più, che non abbiamo lottato per sradicare quella categoria dello spirito che può albergare in ognuno di noi e che può sempre riemergere e mai tramontare se la militanza non diventerà un bene comune, valore primario, intramontabile appunto. Non dobbiamo avere vergogna della militanza, di esprimere i nostri sentimenti collettivi, di parlare più spesso del bene comune, dei diritti, delle nostre piccole possibili lotte per stare meglio tutte e tutti insieme. Non è affatto facile, non è stato facile e non sarà facile perché abbiamo dimostrato di essere deboli, di guardare e di vivere troppo spesso nell'oggi, pensando che la libertà, i diritti, l'eguaglianza, il benessere delle comunità sia un dono del cielo, qualcosa che non tocca a noi difendere e promuovere, pensando che il domani sarà garantito e che sarà migliore, che i diritti, la pace, le conquiste di ieri saranno intramontabili. Invece tutto può tramontare su quel bel fiore se il nostro canto di partigiani non sarà sussurrato tutti i giorni della nostra vita. Bella ciao! 

venerdì 18 maggio 2018

Cavalieri imbecilli su merli sbagliati. 2

(continua)

Per cercare di capire, sono stato il giorno dopo al Comune per intervistare i funzionari degli uffici preposti. Già, ma preposti a che? Di cosa si trattava? Di un contratto legale? Di una licenza edilizia? Di un richiesta di sfruttamento del patrimonio culturale e storico per fini economici privati? Magari di sicurezza nazionale? Di un'utilizzazione privata di un pezzo del patrimonio comunale? Di un fascicolo della Soprintendenza? 
La domanda cade nella sorpresa generale. Nessuno al comune sembra aver mai visto le antenne. Qualcuno crede, immagina, prospetta... Con grande gentilezza (tratto sicuramente da lodare del personale in ogni ufficio consultato) mi viene detto che è meglio fare una richiesta di visione di atti pubblici "a ventaglio" cioè a più dipartimenti perché la cosa non è chiara. Ne investo quattro: i lavori pubblici, il patrimonio, l'ufficio legale e naturalmente il Sindaco. Protocollo il 2 maggio 2018.
A distanza di 15 giorni ieri mi sono recato al Comune dove ho avuto la chiara sensazione che la situazione di incertezza fosse stata impugnata. Diversi uffici erano contemporaneamente al lavoro per cercare di comprendere da dove fossero spuntate tutti questi mostruosi cavalieri telecominicanti.
Il documento che mi viene prontamente consegnato è un verbale della CEI (commissione edilizia) che esprime senz'altro parere negativo per una singola richiesta di istallazione di antenna del 2004 con una bella relazione tecnico-storica che esclude la possibilità di istallare "sul Monte Castello" (quindi nemmeno si ipotizza un "dentro ai merli del Monte Castello") alcun impianto e, anzi, caldeggia per l'intera arera "interventi di tutela e recupero". 
Per il momento altri documenti successivi non sono stati rinvenuti, ma la ricerca continua.

(continua)

Cavalieri imbecilli su merli sbagliati. 1

Non salivo al Monte Castello da moltissimi anni e finalmente ci sono andato alla fine di aprile 2018 dopo aver visto da "terra", cioè dalla Piazza, una piccola selva bianca svettare tra i merli della costruzione simbolo della città: Castiell'.
Prima di arrivare ho esplorato la possente muraglia co le sue opere militari che mai avevo valorizzato in tutta la sua importanza architettonica e monumentale, attratto dal bel restauro del complesso (retrostante il castello più famoso) su cui varrà la pena di soffermarsi in altra occasione, perché la magnifica struttura, per lo più sconosciuta alla città, giace purtroppo in stato di semi-abbandono. 
La parte "spettacolare" del Castello è quella che vediamo dalle terrazze delle nostre case, avvolta dai fuochi della "Festa" per eccellenza. Una costruzione rifatta in varie epoche ma che mostra coraggiosamente ancora alcuni brani delle opere più antiche, fuse in un'unica cartolina di paese dopo la creazione "cinematografica" dei merli in cemento armato.  
La rocca oggi appare oggi "scempiata". Il verbo scempiare non credo esista, ma è il solo che mi viene da utilizzare per questa scena che ho fotografato da varie angolature. Una selva di antenne di varia foggia e misura è stata letteralmente cementata dentro ai merli, creando una specie di palcoscenico da teatrino dei pupi che, se non fosse tragico, bisognerebbe ammettere che addirittura presenta una sua forza evocatrice, insospettata, casuale e micidiale al tempo stesso.
Non è possibile che nessuno le abbia notate e che non si sia chiesto quale sia l'origine di questo atto vandalico. Per il momento non posso fare altro che scattare, tornare a valle e cercare di capire.

(continua)

lunedì 5 febbraio 2018

La strada sbagliata e il regno del silenzio


Capita molto spesso di essere investiti da notizie di morti per incidenti sul lavoro, di tragedie ferroviarie, di uomini che in quanto uomini uccidono donne in quanto donne, di alluvioni devastanti, di gente che spara per uccidere l'altro da sé e così via piangendo. Cronisti e comunità si attivano per due o tre giorni e lanciano accorate dichiarazioni di solidarietà, sdegno, a volte addirittura di stupore, gridando "mai più" in faccia a quel dramma. Si scrivono striscioni sulle lenzuola tolte dall'armadio e poi si torna al regno del silenzio, si continua come prima anzi, a ben vedere, peggio di prima. Ma cos'è che ci attanaglia in questa morsa moderna in cui assistiamo impotenti al consumarsi di tutto ciò, dalla piccola storia di condominio fino agli armamenti nucleari e restiamo indifferenti, come se la cosa non potesse mai toccare a noi e come se noi fossimo sempre del tutto estranei ai percorsi che hanno generato quella tragedia? 
Nella mia vita di artista sociale ho cercato di rispondere a questa domanda, anche quando non sapevo ancora di essere un artista sociale e scattavo semplicemente fotografie. Lo facevo in silenzio, come il mezzo fotografico aiuta a fare; forse questo isolamento non ha giovato alla condivisione del mio turbamento, indebolendo la mia capacità di metterlo in comune fin dalla fase di creazione: l'enormità di questi fenomeni, la loro diffusione e soprattutto l'accettazione "popolare" che si manifestava attraverso omertà, indifferenza, colpevoli menzogne, sorrisetti complici mi hanno spinto a mettere una specie di silenziatore alla mia camera e a farlo principalmente dentro di me, per me, rimandando l'urlo di dolore al momento in cui le mie opere sarebbero diventate stampe incorniciate, lezioni in aule scolastiche, poesie o scene teatrali. Ma all'inizio non lo sapevo. All'inizio non sapevo che fine avrebbero fatto quelle immagini in cui cercavo per le strade di Milano le radici della cultura della violenza degli uomini e della società sulle donne attraverso scatti ai cartelloni della pubblicità stradale, oppure fotografando le finestre di alluminio anodizzato che negli anni '70 devastavano facciate di palazzetti rinascimentali della mia città. Non lo sapevo. Scattavo e basta. Accumulavo rulli di scene in cui qualcosa stava accadendo, qualcosa era nata e cresceva nel silenzio del primo momento, quando quella "cosa" non era ancora grande ma non era più assente dal nostro panorama umano e sociale. Il fenomeno nel momento del suo divenire, l'alba della notizia su cui poi avremmo pianto negli anni successivi. Quando oggi racconto queste storie ai ragazzi, loro ascoltano con aria interrogativa e dopo un po' mi chiedono chi mi avesse chiesto di fare queste foto, chi mi avesse pagato per cercare quei soggetti spesso di così difficile reperimento e interpretazione, spesso soggetti simbolici, non di cronaca giornalistica, come i fiori che spuntano dalle rocce dei templi di Selinunte e che per me sono diventati Peppino Impastato in antichissimo fiore. La risposta a questa domanda, che può contribuire anche a rispondere alla domanda principale di questa riflessione è sempre stata "nessuno!" e genera di solito ulteriori espressioni interrogative sui loro volti. È difficile far capire – a loro che sono giovani oggi, ma anche a persone più adulte già immerse della dinamica sociale contemporanea italiana – che si può anche fare senza che nessuno ce lo chieda, interpretando il proprio ruolo sociale come quello di cittadine e cittadini attive/i. A spese proprie e nel tempo proprio. Una cosa di cui spesso quelle classi non hanno mai sentito parlare e quando la vengono a conoscere – la cittadinanza attiva, cioè "tu che ti sporchi le mani scendendo per strada e combattendo per un'idea che ritieni giusta" – riescono appena appena a sorridere, rilanciandomi quella sorta di estraneità tra me che l'ho fatto e loro che non sapevano che si poteva e doveva fare. Tuttavia, io sono andato avanti nella mia marginalità scomoda, contribuendo nel mio piccolo alla nascita di tiepide riflessioni che in alcuni casi sono poi diventate prese di coscienza matura, applicate a più vasti orizzonti di diritti e progresso sociale sostenibile. 
Ci attanaglia dunque questa forza schiacciante della maggioranza indifferente e complice che risucchia anche noi, ci attanagliano le bugie ripetute ai telegiornali che diventano crudelmente realtà a furia di essere ripetute, ci attanaglia l'interesse personale che è stato sostituito di sana pianta e senza più voglia di discuterne alla bellezza del bene comune, ci attanaglia la povertà morale in cui siamo venuti lentamente a trovarci anche per colpa nostra e che ci lascia fermi e muti quando vediamo per strada un genitore picchiare un bambinetto di due anni o quando sentiamo le urla attraverso le pareti di quella donna che tra qualche giorno sarà distesa sul tavolo dell'obitorio. E io non mi sento migliore! So di aver fatto troppo poco e di essermi mille volte fermato per mancanza di energie da buttare nella fornace. Tuttavia, voglio continuare a cercare di liberarmi da queste tenaglie che mi vorrebbero impotente, lottare – prima di tutto dentro di me – per tenermi strette quelle energie che ancora sento vive e continuare a pensare che sarà bello condividerle con le altre e gli altri, partendo proprio dalle piccole comunità, dal mio microcosmo, dalle persone che condividono il mio spazio civico e che vorranno camminare su un'altra strada, una strada che ci porti fuori, anche lentamente, dai confini mefitici del regno del silenzio. 

giovedì 3 agosto 2017

Perle ai porci e jazz agli animali.

Nella boxe esiste una combinazione di colpi, di cazzotti, che viene chiamata uno-due, ad indicare una scarica violenta e spesso fatale di pugni che manda KO o quasi il pugile che la riceve. La sensazione è la stessa che ho provato questa mattina, verso le 12, con mia figlia, durante la visita ad uno dei più importanti complessi architettonici e archeologici paleocristiani dell'Occidente (sì, dell'Occidente, non della provincia di Napoli): Cimitile.
Il luogo si direbbe poco frequentato dai turisti, credo sia poco noto agli italiani, direi per niente apprezzato dai cittadini locali, visto lo stato in cui versa. Pur in pieno periodo di vacanze e turismo, noi due eravamo gli unici visitatori di quello che definirlo un sito archeologico va bene perché siamo in Italia, altrimenti si sarebbe chiamato, viste le condizioni, un luogo abbandonato, post-bellico, già nella parte monumentale (dopo capirete perché dico "già"). 
Il primo dei due cazzotti metaforici è stato alimentato dai soliti scavi fatti senza alcun progetto successivo di fruizione e malamente abbandonati nel tempo, reperti sparsi al suolo, recinzioni vergognose di legno marcio e ferro arrugginito, sparuti foglietti con le spiegazioni tagliate in due dalle intemperie, fari improvvisati messi per terra, sedie rotte e masserizie abbandonate negli angoli che mi sono rifiutato di fotografare per il dolore, personale sul sito assente, tranne il gentile custode all'ingresso, polvere e degrado da far piangere il mio cuore di archeologo e di cittadino dell'Europa, quell'Europa che ci consente impunemente tutte queste licenze di uccidere un patrimonio che appartiene a tutti. Tuttavia, i resti monumentali pur nella loro impossibile comprensione stratigrafica sono mirabili, straordinari, da lasciare senza fiato chi ci entra e mai si aspetterebbe di trovarsi davanti a quelle testimonianze tanto preziose nascoste nello stretto vicolo tra le case. Insomma, un luogo straordinario, da visitare obbligatoriamente.
Poi c'è il secondo cazzotto. Nell'area tra gli edifici sacri ieri sera si è tenuto un concerto del festival Pomigliano Jazz in Campania, iniziativa di grande interesse che viene tenuta in spazi molto suggestivi come il cratere del Vesuvio, anfiteatri, musei, scavi ecc. Ottima idea. Ottima iniziativa che non ha certo bisogno del mio sostegno. Purtroppo la collocazione all'interno dell'area archeologica di Cimitile e lo svolgimento del concerto – che mi auguro essere stato un successo – sono stati funestati dal comportamento degli spettatori e, in buona sostanza anche degli organizzatori e dei padroni di casa, che hanno pensato bene di lasciare una montagna di rifiuti sparsi sul prato, esattamente dove si erano accomodati, a spregio e sfregio del luogo che li ospitava e di coloro che all'indomani avrebbero magari visitato il sito. Bottiglie, lattine, bicchieri, programmi del festival, resti di panini, cartacce: tutto al suolo, senza ritegno, senza vergogna, abbandonato lì a far bello spettacolo del livello di cultura e civiltà dei presenti. Eppure si diceva che la musica jazz è una musica colta, apprezzata da persone che dovrebbero forse aver acquisito un patrimonio di conoscenze sufficiente almeno a dire "metto la lattina vuota nel contenitore della spazzatura", pure presente. Uno spettacolo immondo. Parliamo col custode che si mortifica e dice che dovrebbero venire gli operatori del comune e comincia a raccogliere la spazzatura da solo, con le mani, aiutato da un ragazzino. Usciamo e chiamiamo il Comune. Nessuno risponde. Decidiamo di andarci fisicamente. Chiediamo a una persona che ha un negozio nei pressi e ci dice che lui non sa dove sono i vigili né il comune (vedi scene cult della filmografia sulla mafia). Un altro invece ci da l'indicazione tanto segreta e ci andiamo. Deserto. Compare un costode che ci chiede se siamo cittadini di Cimitile per presentare quel reclamo e io rispondo che siamo cittadini d'Europa. Straniato, gli manca la parola e ci manda a parlare con l'ufficio detto "tecnico". Visibilmente disturbiamo due signori intenti a fare qualcosa e presentiamo il caso. Si meravigliano della nostra protesta e senza guardarci troppo in faccia ci dicono che entro sera qualcuno dovrebbe andare a pulire. Entro sera. Salutiamo e ce ne andiamo convinti che di più non possiamo fare in quel posto semi-deserto che ricorda molto da vicino la sensazione semi-desertica che abbiamo provato negli scavi qualche minuto prima. Partiamo alla volta della Reggia di Caserta.

mercoledì 29 marzo 2017

Le lacrime, il tempo e le ciliegie



Treno Napoli-Milano 23 marzo 2017 h.8:25.
Dal posto 4 della carrozza 8 di Italo guardo Napoli che si allontana a marcia indietro. Torno a Milano per l'ultima volta da residente e mi preparo a lasciarla dopo 27 anni e a tornare, dopo 36, a vivere nel luogo in cui sono nato: Cava de' Tirreni. Ascolto per accelerare l'emozione e la commozione le canzoni napoletane cantate da Massimo Ranieri della raccolta che contiene "Cerase", scoperta che devo a Rossella Savio. 
La canzone racconta di lacrime grandi come ciliegie e mi accorgo che sto piangendo in silenzio anch'io guardando fuori campagne come giardini e discariche come inferni. Il tempo comanda ora più che mai le mie giornate, una successione di avvenimenti vissuti in solitaria, decisioni, manovre, trasporti, appuntamenti che asciugano inesorabilmente la clessidra di sopra per riempire quella di sotto.
Ho calcolato approssimativamente il numero delle persone care che vorrei abbracciare prima di partire, persone che vorrei salutare una per una per afferrare ancora una volta quei sorrisi e gettarli nella mia sporta ricamata a fiori: sono più di cento, forse duecento, trecento. Troppi. Mi arrendo. Resto impotente di fronte al tempo e alle energie che mi mancano. Non ce la posso fare! I giorni mi si sono consumati tra le mani, la decisione è stata presa velocemente e tutto il resto è rotolato appresso. Allora cerco consolazione a questo dolore affidando l'abbraccio al ricordo dei momenti più belli vissuti insieme, quelli passati per strada, alle feste, nella politica, nel negozio, sulle zattere, nelle scuole, negli uffici. Rivedo in una folla chiassosa tutti i visi apparsi sulla mia scena per caso, per amore, per passione, per insegnarmi, per ascoltarmi, per ospitarmi in questa metropoli che in fondo non sono riuscito ad amare ma che mi ha regalato quest'immensa miniera fatta storie che non mi lasceranno. 
Piango su un treno che segna 300 km/h, vado su e giù per il mio calendario, pronto a ripartire ancora una volta, per una vita nuova e intanto penso mestamente che non ho avuto il tempo di avvertire quasi nessuna di tutte queste persone. Ormai non posso fare più niente per rimediare e non mi resta che abbracciare il silenzio benevolo, sapendo che continueremo a volerci bene.

giovedì 8 dicembre 2016

I tempi, i diaframmi e la disciplina delle cose semplici.

Accade da molti anni ormai di vivere in un mondo dominato dalla comunicazione di massa, anzi, per dire meglio, della comunicazione alle masse. E questo lo sappiamo. Ma troppo spesso ci dimentichiamo che le masse siamo noi, le masse sono quelli che sono costretti in questo disequilibrio planetario ad assorbire, ad ascoltare quello che viene raccontato e rappresentato, perché da una parte non hanno un reale potere di conoscere le cose decisive che accadono nel proprio paese e nel pianeta tutto e, dall'altro, non hanno nessun mezzo potente per informare un numero significativo di "altri" rispetto alle cose che invece accadono intorno a loro e di cui sono testimoni. 
Le masse siamo noi, quelli che finiscono per vivere in una gigantesca bolla la cui aria è costituita appunto da quelle informazioni che i pochi con il potere di farlo inseriscono ad arte. E cosa succede dopo tanta esposizione a quest'aria viziata? Succede che ne siamo completamente pervasi e la respiriamo senza più accorgercene e diventiamo protagonisti di scelte e di vite che nemmeno più ci appartengono.
Questa banale metafora in cui l'aria che respiriamo è paragonata in maniere elementare all'informazione alle masse – cioè alla conoscenza delle cose che accadono lontano da noi, là dove noi non stiamo fisicamente, non siamo presenti con gli occhi e le orecchie aperte e liberi da condizionamenti – mi è venuta in mente in queste ore in cui sono stati pubblicati i risultati del referendum costituzionale del 4 dicembre 2016, Santa Barbara! 
Sarebbe troppo lungo e fuori dalla mia capacità di analisi sociologica una descrizione del processo che ci ha portati in questi lunghissimi anni a vivere così, in questo modo improbabile, dove la vita di ognuno e ognuna di noi non fa che peggiorare giorno dopo giorno, dove il progresso è diventato una pagina di storia ingiallita e i protagonisti dell'informazione alle masse ci tengono svegli e allegri artificialmente come con le galline dalle lampade accese nelle stalle. 
Mi limito quindi a scrivere le mie spontanee riflessioni e le racconto in modo oscillante e lievemente sfocato postandole sotto la fotografia di un meraviglioso bocciolo che spunta in purezza da una rosa appassita al Roseto della Villa Reale di Monza. Forza della metafora!
Ascoltiamo volontariamente menzogne, ce ne convinciamo e viviamo come se quella fosse la realtà. E se ne convincono persone che io conosco e di cui apprezzo l'intelligenza, la cultura, l'onestà. Ripetono slogan e frasi che non poggiano su niente e nascondono le verità semplici che potrebbero scoprire facilmente mettendo a nudo quell'informazione manipolata, quell'aria viziata che respirano. 
Ma perché lo fanno? Perché a dosi differenti per ognuno di noi lo facciamo? A quale mondo pensiamo quando continuiamo a convincerci e a ripetere cose false o altamente improbabili che sappiamo essere di parte, motivate da interessi che in fin dei conti non sono i nostri, che potrebbero portare dei benefici per noi effimeri, lontanissimi, o quasi sempre non li portano e – attenzione attenzione – non li hanno portati per niente già in passato? 
Continuiamo a subire anche dopo aver avuto una, due, tre, cento verifiche della falsità e della menzogna di quelle argomentazioni, notizie, analisi. Ci rimettiamo il cappuccio e continuiamo a camminare sorridendo a testa bassa, forse per non piangere. 
Difendiamo poteri forti e stili di vita che non sono nostri, che non raggiungeremo mai e che forse non ci interesserebbe nemmeno raggiungere. Ci iscriviamo idealmente a club esclusivi che ridono di noi e non ci farebbero mai entrare nelle stanze del comando. Non ci ricordiamo di aver sentito parlare, di avere letto dei semplici perché che pure da qualche parte non lontanissima esistono e sono stati svelati fin nei minimi dettagli da coraggiosi individui che li hanno già smascherati. Tutto ci è stato detto ANCHE in un modo differente, vero, più vicino alla realtà dei fatti, tutto è già stato pubblicato: le guerre, le stragi, gli omicidi, le mafie, la politica, il condominio, il lavoro, il clima, le migrazioni e tutto e tutto e tutto. Volendo, sappiamo già tutto. Voltiamoci indietro a guardare lo sviluppo dei grandi fatti della storia recente: tutto era già chiaro e conosciuto fin dall'origine, fin dalle prime menzogne: da Peppino Impastato alla Guerra del Golfo, dalla storia di questo assurdo referendum alle stragi di migranti, da Ilaria Alpi alle bombe di piazza, dagli aerei che esplodono alle cure per l'AIDS in Africa, dall'EXPO vero a quello raccontato.
Mi chiedo allora perché non diventiamo tutti maggiormente osservanti di quella che chiamerei disciplina delle cose semplici che ci dovrebbe far dire: la verità è piccola, quasi sommersa, ma c'è, la conosco ed è diversa da quella che viene raccontata ogni giorno a miliardi di persone, la vado a scavare e magari me ne faccio addirittura portavoce. 
Credo che ciò avvenga perché ormai le masse che vivono artificialmente quelle vite a prestito sono diventate troppo grandi, sono aggressive, sono dappertutto, si sono autoproclamate vincenti (!!!) al pari dei vincenti veri, di quei pochissimi che comandano. Queste masse ci schiacciano, ci soffocano nella nostra piccola diversità, nella nostra accanita e a volte ossessiva ricerca di semplicità. I valori, le convinzioni dominanti non riusciamo più a combatterli perché sono entrati nel cuore dei nostri vicini, dei nostri amici, dei nostri amori e una loro  difesa ci mostrerebbe agli occhi di queste persone come romantici, anacronistici, idealisti, troppo-puri, scomodi, fastidiosi, perdenti, sfigati, secondari, marginali, inferiori. E noi non possiamo permettercelo: siamo troppo deboli, troppo soli, è troppo faticoso, troppo doloroso. 
Ma saremo sempre deboli se continueremo a contarci e immaginarci cosi: uno, uno, uno, uno. Dovremmo pian piano cominciare a contarci uno, due, tre, quattro. In quel caso ci sentiremmo sicuramente più forti. Ma anche questo non basterebbe. Ci vorrebbe anche in questo caso un cambio di prospettiva, dovremmo amare di più la disciplina delle cose semplici. Non basta essere in tanti occorre essere liberi e felici di indossare quella veste da "elementare", da "semplice", e presentarsi noncuranti dell'opinione delle masse che ci circondano, ci giudicano e ci guardano strani da sotto ai cappucci, sapendo che la verità non dobbiamo farcela inculcare ma dobbiamo cercarla e raccontarla al di fuori di interessi di parte concreti o immaginari che siano, e, soprattutto, al di fuori dei nostri interessi personali e della nostra ricerca di potere individuale. Una verità scomoda e dolorosa – che potrebbe riguardare lo stato della nostra vita presente e futura, il nostro lavoro e quello dei nostri figli, le difficoltà dei nostri amici e delle persone che ci circondano, il dolore profondo delle relazioni moderne tra individui vicini e lontani sarebbe sempre meglio di una menzogna, sarebbe meglio conoscerla per quello che è e raccontarsela piuttosto che seppellirla nella polvere. 
Per riportare il pensiero nell'alveo di questo blog dedicato alla fotografia e alla politica, dico che nella mia esperienza di artista, la semplicità di questa disciplina sociale è molto simile a quella che esiste per la fotografia d'autore, dove si racconta il pensiero di un uomo o di una donna attraverso un fotogramma di poesia e di luce. Un prodotto apparentemente complesso, esattamente come la nostra vita sociale, ma costituito in fondo da tanti elementi semplici, elementari, che vanno combinati in una struttura articolata e potente, funzionale come un bilancio di un'azienda, la gestione di una ASL o la riforma di una costituzione democratica
Ecco a cosa penso quando penso alla disciplina delle cose semplici: un processo rigoroso, disciplinato appunto, libero, lungo il quale attingere a valori reali e dare vita a un progetto reale, da condividere, veritiero, che non domandi asservimento a poteri di altri che non diventeranno mai nostri e che non dovremmo nemmeno nominare, una vita di pensiero che non ci costringa a mentire a noi stessi, che sia leggero e libero ma forte e destinato a farci del bene. Quindi, per saltare alla fotografia, non realizzare scatti alla maniera di..., secondo la moda imperante in rete, ma scattare immagini nuove, regolando con lentezza e consapevolezza tempi e diaframmi, mettendo a fuoco per ricercare le verità della realtà che abbiamo di fronte e raccontarle in maniera originale, finalmente nostra.
Da questa semplicità individuale credo possa derivare un maggiore benessere per tutti e anche... un migliore album di foto, in quest'epoca di sofferenza globale per l'occhio e per il cuore. Tuttavia, per fare ciò dobbiamo avere la forza di lasciare da parte i nostri interessi, sì! i nostri interessi spasmodicamente difesi e dedicare una parte importante delle nostre forze alla formazione di un interesse comune, portato verso il più grande numero di persone possibili e non asservirci volontariamente al mondo del potere e dell'interesse privatissimo di pochissimi che di noi, delle masse, non si curano affatto e che... non guarderebbero mai le nostre fotografie perchè non saremo seduti mai nel loro fottutissimo salotto.

venerdì 11 novembre 2016

11_11_11 La nascita del lupo e la "pressione di genere".


Sono passati 5 anni dall'uscita del libro e oggi 11 novembre 2016 posso raccontare un pezzo della sua vita, timida, piuttosto isolata ma coraggiosa: sono fiero di lui! Delle 1490 copie stampate a spese mie oltre 1200 sono state vendute. Quasi una per una, a volte una sola soletta in presentazioni in periferia, altre volte tante insieme in affollate conferenze. Certamente, per un libro senza editore, senza pubblicità, quasi senza libreria e senza recensioni da parte dei pur numerosi professionisti e professioniste della stampa che lo hanno conosciuto, direi che è stato un risultato che mi fa dire "ne valeva la pena". Intanto l'Italia mi sembra ulteriormente cambiata, andando mestamente verso una piccola e silenziosa palude bollente, la tensione sociale è ulteriormente diminuita e le donne continuano ad essere ammazzate dai mariti. Dal canto suo, la pubblicità stradale non fa una piega, continua per la sua strada, non cambia, non si rinnova, passa alle bambine come previsto, continua nella stanca scia di un'epoca maschilista che sta definitivamente tramontando ma loro non possono dirlo e fanno finta di niente. Danno le ultime batoste, gli ultimi micidiali colpi di coda. In questi 5 anni tante altre donne sono emerse sulla scena nazionale e mondiale, nei luoghi del potere a vario livello e ormai si comincia a sentire forte quella che mi piacerebbe chiamare "la pressione di genere", cioè la spinta che non può che essere destinata al successo dei milioni e milioni di donne che negli anni passati e difficilissimi del maschilismo "antropologico", cioè millenario, hanno studiato, hanno lottato, hanno capito, si sono fatte largo. Ora sono lì, a milioni, pronte, che sanno come si fa camminare un treno, come si programma l'economia capitalista e anche quella non capitalista, come si amministra una città, una banca, un corpo dei vigili urbani. Siedono nei banchi alti della politica,  della giustizia, della scienza, molto in alto e ci affiancano pronte a superarci. Dal canto nostro, come fa la pubblicità, noi uomini continuiamo a far finta di niente, crediamo che il nostro potere maschile sia eterno, sia biologico, ma non è più così. Tramontata la clava, inutile il muscolo, oggi si schiacciano tasti leggerissimi, si sfiorano schermi cristallini, si comanda con la parola e l'immagine. Cose immateriali, affidate al pensiero, al sapere-come-si-fa. La rivoluzione è finita, ma nessuno ce lo dice. Sarebbe utile a questo punto addirittura anticipare i tempi e cominciare già a discutere che tipo di potere sarà quello delle donne al potere, che destino avremo noi uomini lentamente scivolati fuori per nostra manifesta incapacità di restare lì, dove si comanda il mondo. Ci vorranno ancora degli anni, ma tutti i processi in via di formazione passano per strade lente e inarrestabili e sarebbe meglio interrogarsi fin da ora su quello che troveremo alla fine del sentiero. 
Intanto, non fate finta di niente anche voi e prendete in mano una delle ultime copie del piccolo, timido libro di un fotografo che tanti anni fa ci aveva creduto. 

giovedì 7 aprile 2016

Il babà, gli amici e Pasquetta

Ci sono luoghi e date che abbiamo il dovere di coltivare come una parte importante di noi, della nostra storia, della nostra vita collettiva e intima. Una di queste date, fusa con un luogo ormai rituale, è la pasquetta a casa di Gabriele e Chiara. Quarello e Vitiello: si sono sposati che fanno pure rima...  e delle loro tre figlie che crescono in fretta come gli alberi di limoni sul terrazzino.
Ci sono andato tutte le volte che ho potuto in questi ultimi anni non tanto per fare un piacere a loro, ma per farlo a me e alle persone che ci sono venute con me. Una casa di traverso al giardino che è messo di traverso al panorama sulla città della Cava, le mie origini, che guardo da lontano come se fosse un film. Ci arrivo sempre che la piccola brace è già accesa e questo è un primo elemento distintivo: si tratta sempre di strutturine pericolanti, timide, troppo piccole e malferme, dove però vengono arrostiti cibi di bontà sublime. Niente fornetti bianchi da villetta al mare, niente sfarzi di barbecù con termoaspiratore: una "gratiglia" o dei blocchi di cemento di colori diversi incastrati in qualche modo dove implacabile arde la brace di legna a metri zero. Sì, qui si mangiano e si bruciano cose a metri zero, o due. I limoni se non stai attento ti possono anche cadere nel piatto se ci stai seduto sotto. 
Descritto così, sembrerebbe un posto dove vai per mangiare e basta, abboffarti spudoratamente anche nel giorno dopo l'abboffata pasquale. E invece no! Io ci vado per farmi una sauna di amicizia, un bagno benevolo tra persone di cui spesso ignoro tanta parte di storia, confondo nomi e cognomi, ritrovo solo qui a pasquetta, di anno in anno. A volte più magri a volte più grassi, come me del resto. L'amicizia di cui sto parlando è un vento tiepido che entra sotto la maglia e ti rende immune dai rafreddori dell'indifferenza cittadina che da troppo tempo mi vortica intorno. Sono persone essenziali, dirette, che si muovono finalmente piano e che hanno la costanza di restare due, tre, quattro ore vicino alla brace per arrostire carciofi (grandi assenti dell'edizione 2016) salsicce, pancette, pane e pomodoro e, da quest'anno, foglie di limone attorno a tutto. Una nuova droga, un delirio di profumo che ha cominciato a foderare ogni pietanza: dal coniglio alle salsicce, bruciacchiando al calore e producendo tizzoni odorosi di costiera e vecchie zie. Mi sento voluto bene e circolo senza meta tra la cucina arredata con la dolcezza sicura di Chiara e il giardinetto dove quel bellissimo coltivatore-dalla-faccia-di-attore-americano di Gabriele ridisegna ogni anno percorsi di improbabili recinti per tartarughe, melanzane, antiche piante di calle, compostiere rigorosamente bio e legna da ardere. Il cibo allora diventa un modo per tenerci più stretti, per offrire all'altro la cosa migliore che sappiamo fare, per mettercela tutta a restare nel solco delle tradizioni con la dose di fiori d'arancio come diceva la nonna ma sconvolta dall'innovazione della cugina che non sappiamo perché sia stata ascoltata. E quando ti sembra che sia finita, quando il babà giace muto nella "guantierina", fiero del suo profilo a piede di elefante che mi ricorda sempre la mia prima comunione, ritornano le salsicce, le migliori della giornata, quelle lasciate ad arrostire da sole in un atto di autocoscienza culinaria a beneficio dei fuochisti che sono rientrati in cucina. E poi i "limoncelli" che però sono fatti con i cedri di Santa Maria del Cedro, il mirto con le bacche "colte" da Gabriele distrattamente in un giardino, con rosoli in bottiglie senza aspettative ma che aspetteresti tutta la vita per averne il contenuto. 
E io in tutto questo benessere do di mano alla mia natura, prendo la mia macchina fotografica e fotografo tutto, pezzi di pastiera, resti di pasta al forno, foglie costodi di pezzettini di coniglio, pastiere semisventrate, bicchierini, piatti unti di olio dal colore dell'oro, limoni e gelsomini profumati. Mi perdo con l'occhio, ma soprattutto col cuore, a immortalare questa semplicità, questa natura che è naturalezza, questa amicizia che si riflette nei vetri gialli di alcool. Mi sembra di fare una cosa importante, scattare delle fotografie "proletarie", dalla parte del popolo che mangia e non dei tipi che vendono, di fare una cosa giusta che deve restare, senza il segno dell'eleganza finta ma della vita vera. Delle foto che siano il nostro distintivo, la nostra memoria semplice e, perciò, rivoluzionaria e avanti.     

lunedì 22 giugno 2015

Vitruvio, il faraone e la Fondazione

Vitruvio sarebbe contento! Vitruvio sarebbe contento? I moderni ormai tributano un omaggio all'architettura che potremmo definire estremo, altissimo, addirittura deferente. Le attribuiscono un valore a sé, svincolata dall'applicazione all'umano per cui è stata concepita e realizzata, come un sentimento sublime, come un altare luminoso dove svolgere rituali (incomprensibili a noi volgo), un'entità astratta – pur nella sua massiccia e devastante materialità – verso cui provare una soggezione addirittura esaltante: starci al cospetto ci lascia piccoli ma ci fa importanti, ci fa appartenere al mondo meraviglioso di quelli che sanno i nomi. 
I visitatori italiani e stranieri della Fondazione Prada di Milano in questa domenica 21 giugno, inizio fulgido d'estate, si perdono lentamente nello spazio architettato come piccoli astronauti: si spostano e si guardano intorno riflessi nel freddo dei cristalli, degli acciai a specchio, degli intonaci d'oro che rimandano le luci di un cielo milanese veramente meraviglioso.
Il personale in abbondanza è schierato senza smagliature ai posti strategici e si sposta rapido su una scacchiera invisibile indossando impeccabili divise d'ordinanza che conferiscono loro un aspetto di piccoli guardiani e guardiane severi. Si muovono o stanno, circondati dallo straniante silenzio dei volumi rotto appena da basse voci bisbigliate, come si conviene a un santuario.  
Ero venuto per visitare la mostra sulle ripetizioni di modelli scultorei nell'antichità (una mostra curata da uno dei miei miti culturali, stranamente impegnato in questa azione "fuori campo popolare"), ma non sono entrato. A 10 euro per poco più di un'ora ho deciso di non entrare. Sì. Oggi in via eccezionale il biglietto resta intero ma la Fondazione chiude alle 15. Nessuno te lo dice mentre entri. Nessuno te lo dice mentre fai il biglietto. A me lo ha detto un'amica che ho incontrato lì. Arrabbiata. In effetti, resto in coda qualche breve minuto e non sento mai nessuna delle hostess dire alle persone che fanno il biglietto intero che hanno meno di 2 ore per visitare 4 mostre e, addirittura, a due dicono anche che c'è il film da vedere. Nemmeno a me lo dicono finché non lo chiedo (questo almeno fino alle 13:15, momento della mia coda. Poi quando starò per andare via alle 14,15 sento che lo dicono e alcune persone ovviamente rinunciano. Altri pagano e corrono dentro).
Le hostess sono addestrate, come ormai accade in ogni luogo milanese alla moda, ad essere gentilmente scortesi e arroganti, al lavaggio delle mani, al rimbalzo delle lamentele. Chiedo se c'è una riduzione del biglietto ma mi risponde col sorrisetto – d'ordinanza anch'esso – che non è compito suo, non posso chiedere niente, non posso parlare con nessuno. Che loro lo hanno scritto sul sito bello grande e che IO non l'ho visto. Lei e le sue colleghe lo hanno visto vero? Prima di uscire di casa ho guardato il sito per vedere gli orari e non c'era scritto niente, ma lei questo non lo sa perché il sito ha possibilità di accesso da due tipi di ricerca. Se cerchi "Milano Fondazione Prada" ti manda a questa pagina http://www.fondazioneprada.org/visit/visit-milano/ dove NON c'è scritto niente. Se invece cerchi Fondazione Prada Milano ti rimanda a un'altra pagina dove effettivamente ho trovato poi che c'era scritto http://www.fondazioneprada.org/. 
Ho l'impressione, come ho già avuto modo di pensare in passato in situazioni analoghe milanesi, che chi sta dentro si senta un po' superiore a chi sta fuori, anche se fa la hostess a 800 euro al mese con – forse – un contratto a progetto (ma qui non so come funziona il job job).
Lascio la biglietteria e esco all'aperto. Mi siedo al sole negli spazi di cemento, vetro, ferro, alluminio, specchi, tozzetti di legno immersi nella sabbia, materie tagliate in ogni forma per concorrere a un'architettura, diciamolo pure, performante assai.
Le persone fotografano ossessivamente tutto quello che possono, naturalmente coi telefoni, si fanno ritratti allo specchio (come se non ne avessero uno a casa, ma qui è qui!), scattano competenti foto ai dettagli architettonici, ai tubi, alle scale, alle lamiere, alle passerelle traforate, ai bagni con 4 rotoli di carta igienica che scendono a secondo del peso specifico di ognuno dettato dalla quantità di carta (geniale!!!!). Fotografano tutto e lo mandano agli amici! Addirittura una ragazza all'uscita fotograferà i manifesti pubblicitari che stanno come giganti per strada. Per fortuna fanno tutto in silenzio. 
Ero venuto per fotografare i marmi con la machina con la pellicola, volevo sentirmi un po' a casa, ma resto amareggiato e non scatto niente. Sono seduto sotto un albero tarchiato e immagino di avere accanto Vitruvio e discutere con lui. Certo, non possiamo immaginare cosa direbbe un uomo di tanti secoli fa davanti a una faraonata del genere in cui l'elemento uomo non sembra al centro della storia. Non lo so. Gli chiederei se è d'accordo con me, semplice uomo dentro l'architettura, che il progetto sembra escludermi, estraniarmi, sembra sopravanzare l'uomo, sopravanzare me.  Aspetto la sua risposta e sono quasi le due.
I visitatori continuano ad entrare dai cancelli apertissimi. Ritorno dentro. Giù. Ritiro lo zaino e approfitto per chiedere alla guardarobiera perchè non mi ha avvertito nemmeno lei quando ho depositato lo zaino che avrebbero chiuso prima. Mi risponde candida che oggi chiude prima (a prezzo sempre intero) perché c'è un evento della moda. Lo dice come se fosse un evento soprannaturale, irrefutabile, imprescindibile, divino quasi. Le chiedo come mai non mettono un cartello, una fotocopia per quelli che sono usciti meschini di casa senza prima collegarsi a internet e mi dice che "non è nello stile Prada mettere i cartelli". Esco sconfitto e muto. Chissà cosa avrebbe pensato Vitruvio dello stile Prada.
Me ne vado in bicicletta e arrivo a viale Umbria dove credo di aver beccato un funerale cibernetico, fantascientifico: macchine nere a profusione, pulmini neri, persone giovani (femmine) e adulte (maschi) tutte vestite di nero. Serissime e impassibili stanno per strada dappertutto. Aprono le portiere nere dalla seconda fila e faccio fatica a passare vivo sul viale dove si sta tenendo questo funerale faraonico. Si vede che oggi è la giornata dei faraoni. Invece capisco che si tratta anche qui di un evento. Si un magnifico evento dedicato alla vendita dei vestiti italiani cuciti all'estero a persone che probabilmente risiedono in maggioranza all'estero. Chiedo ai due vigili che sono lì a sorvegliare il funerale faraonico perchè non liberano la strada e garantiscono la sicurezza ai passanti sul viale, mi risponde che non può perché sono lì per salvaguardare l'incolumità dei cittadini che passano davanti all'evento, non sulla corsia opposta e che sono pagati dalla ditta dei vestiti e che sono solo due e che ce ne vorrebbereo almeno otto ma i privati non vogliono pagarne otto e che non può menneno chiamare la centrale con la radio perchè tanto un'altra macchina non gliela mandano e che ho ragione ma che non può farci niente.
Anch'io non posso farci più niente. Faccio accomodare Vitruvio sulla canna della bicicletta e lo invito a mangiare in un all you can eat cinese.

mercoledì 18 febbraio 2015

Famà che torna in Africa


Il 3 maggio 2010 ho postato un testo dal titolo Famà http://icofotografico.blogspot.it/2010/05/fama.html in cui raccontavo un episodio della mia vita che mi ha regalato una grande felicità. Era l'incontro con un uomo venuto da lontano, dal Senegal, che da allora è diventato uno dei miei più grandi amici.
Oggi scrivo di nuovo di lui perché questa mattina è successa una cosa tremenda che da tempo sentivo e temevo: mi ha chiamato al cellulare, con voce triste, dicendomi che aveva deciso di tornare in Africa. Per la prima volta gli ho sentito pronunciare questo nome geografico; le altre volte aveva sempre detto Senegal. Non so perché lo abbia fatto, forse perché la sua grande terra lo sta chiamando per salvarlo dalla nostra e lui le rende un tributo ancestrale, antico come le lacrime che gli bagnavano gli occhi di mogano stamattina davanti alla farmacia di via Maiocchi. Già altre volte mi aveva detto che avrebbe voluto tornare, ma che lo avrebbe fatto solo dopo aver ottenuto il permesso di soggiorno, in modo di poter rientrare in Italia liberamente. 
Allora abbiamo messo insieme dei soldi, tanti, per fargli versare i contributi per l'emersione da un lavoro nero inventato (lui che di lavoro non ne ha mai avuto nemmeno uno nero) e li ha versati puntualmente dopo che un amico lo ha iscritto in un libro paga aziendale di cui lui ignora persino l'esistenza. Ha versato contributi al sistema previdenziale italiano con soldi che altri suoi connazionali ed io, insieme al mio fratello Pino, gli abbiamo regalato. Sì, perché ho imparato che loro sono abituati così: se ti servono dei soldi io te li do. Non importa se sono povero o ricco: se ne ho pochi te ne do pochi, ma lo faccio come si fa una cosa naturale. 
Insieme abbiamo passato tantissimo tempo, forse più di quello che io abbia trascorso con qualsiasi altro mio amico maschio in tutta la vita. Ci siamo raccontati la vita e gli ho insegnato un lavoro, il mio lavoro. L'ho portato con me a montare le mie mostre in giro per l'Italia, dandogli quella dignità di uomo e di lavoratore che gli spettavano molto più delle mortificazioni del venditore di collanine. Ho rischiato per lui e con lui introducendolo in luoghi di lavoro pubblici senza alcuna copertura assicurativa e senza alcun permesso di soggiorno: clandestino lui, incosciente io. Ma siamo stati felici, abbiamo riso, ci siamo confidati pensieri, ho suonato per lui le nenie del suo paese per farlo sentire come a una festa in mezzo alla sua famiglia. Ora tutto questo deve finire perché "non va bene questo" come lui ripete sempre. Ha finito da tempo di vendere accendini che nessuno gli compra più e anche le piccole elemosine sono estinte. Non va bene questo, me ne devo tornare in Africa. 
Non ho tempo per pensare a me e a quello che sto perdendo. Ora devo fare delle altre cose per lui. Presto. Devo mettere insieme i soldi per permettergli di acquistare il biglietto aereo di linea e farlo tornare al più presto al suo paese, dignitosamente, senza poliziotti alla frontiera e senza problemi al rientro a casa, come se fosse stato un viaggiatore di un lungo viaggio in un paese che non aveva niente per lui. 
Se io potessi farlo da solo, domani mattina Sidì sarebbe già su un volo che lo riporterebbe dopo tanti anni a casa da sua moglie e da un figlio che poco ricorda. Pronto a partire con i suoi 23 + 23 kg di bagaglio da stiva e 8 kg di bagaglio a mano, perché, come tutti i migranti, sa già tutto delle compagnie aeree e dei loro regolamenti bagagli. Ma questo biglietto non posso pagarglielo io. Non da solo. Non ce la faccio più neanche io. Posso solo chiedere a tutti gli amici e le amiche che lo hanno conosciuto in ICHOME di aiutarmi ad aiutarlo. Aiutarmi a mandarlo via da qui al più presto. Ognuno metta insieme quello che sente di poter offrire e lo consegni a me che lo consegnerò a lui. E lui se ne tornerà alla sua Africa, così com'è venuto quella volta da me, con un passo lento e il sorriso di un uomo buono.

giovedì 15 gennaio 2015

La bella e le bestie

Prima di entrare dal vicolo in salita in Via Garibaldi di Genova chiedo alle mie allieve e ai miei allievi di fermarsi un attimo prima di svoltare: volevo introdurre loro il concetto della "sorpresa" nella fotografia d'autore, rispetto a uno scenario magnifico, sorprendente, unico che sta per aprirsi ai nostri occhi e che finora è sfiggito alla nostra conoscenza. 
Si fermano poi ripartiamo ed entriamo nella strada più bella d'Italia (tra quelle che io ho visto finora e secondo la mia opinione). Lo stupore è quello prevedibile e la percorriamo in lungo e in largo prima annusandola, poi fotografandola dopo pranzo. 
In questo ultimo momento di riprese libere sul tema della strada in questione anch'io punto il naso all'insù e capisco cosa mi aveva infastidito fino a quel momento: le luminarie natalizie, non tanto in se stesse, quanto piuttosto nella maniera in cui erano fissate ai palazzi. Corde, cordine, cordoni, lacci e laccetti disordinati e orrendi deturpavano in un momento di massima affluenza turistica le parti basse delle facciate dei magnifici palazzi. Le parti basse, cioè quelle più vicine al visitatore. Affreschi e sculture compresi. 
E allora la sospresa vera e propria è stata quella di scoprire come anche un patrimonio di tale grandezza (UNESCO) sia affidato – in un tentativo di addobbo e di presuto abbellimento – all'attività cialtrona e incurante di qualcuno che ne è responsabile ma responsabile non dovrebbe esserne. Non è colpa dell'operaio che lega, tira, arrotola ma dei funzionari, architetti, sindaci e vicesindaci che tutte le mattine passano di là e non ci trovano evidentemente niente di strano. Il municipio è esattamente lì.
Restiamo sorpresi. Fotografiamo. Raccontiamo. Chiamiamo a rispondere. Insomma, facciamo politica con la macchina fotografica. Liberamente.

martedì 15 luglio 2014

Voleteci bene!

Su un muro dell'Ostello Bello di Milano c'è la scritta "Sparate pure al pianista ma al piano voleteci bene". Mi è venuta in mente pensando alla navigazione della nuova ZATTERA # 11 di ICHOME il cui imbarco è previsto per giovedì 17 luglio 2014 alle 19 presso la Key Gallery di Via Borsieri, in collaborazione con l'associazione Carmilla. 
Quelli che hanno seguito tra il 2009 e il 2012 le 10 zattere precedenti ai tempi di via Carpi e via Stoppani sanno cosa siano e hanno condiviso lo spirito che le ha animate. 
Scrivo quindi per gli altri, quelli che sulle zattere non ci sono ancora saliti.
Il concetto principale è la sopravvivenza, come recita anche il titolo della mostra esposta contemporaneamente nella galleria, su un legno delicato e apparentemente debole ma  inaffondabile e facile da conquistare anche in mezzo al mare: un legno su cui ci si può salvare la vita.
Su quelle zattere sono saliti pensieri, dolori, gioie, aspirazioni, amici e amiche, narratori, poetesse, madri soccorritrici di piccoli sventurati, scrittrici mirabili di Sardegna, portatrici di valori usciti dalle condanne carcerarie, migranti e migrazioni, antimafia e lotte sociali, ceramiche, libri, collane e fotografie sostenibili.
Poi...a dicembre 2012 abbiamo dovuto tirarla a secco, Paola e io, la zattera ideale, perché la crisi ci aveva stroncato. L'ultimo negozio ha chiuso il 23 dicembre di quell'anno sulle note di clarinetti, fisarmoniche, cantici di ringraziamento e tante lacrime. 
Per quasi 20 mesi le zattere sono state abbandonate sulla spiaggia sommerse dalle alghe delle difficoltà contingenti, dalle sofferenze personali e anche dall'indifferenza, tutti elementi negativi che hanno allontanato energie e cuori dalle cime e dalla rotta.
Ora l'ho ributtata in mare con ambizioni piccole piccole ma vive, ho creato il progetto sei x sei, fatto di fotografie mie di ricerca che – ancor più delle altre presentate in ICHOME – stravolgono il mercato ufficiale e stitico della fotografia d'autore in questa nazione. Si tratta di piccolissime stampe che riducono ulteriormente il costo di produzione e il loro valore commerciale pur presentandosi in splendidi passepartout da collezione (regalatimi dall'amico Ermes Miceli). Dentro trovano posto stampe di 6 x 6 cm in bianco e nero e a colori che continuano a narrare la storia di un artista indipendente che ha deciso ancora una volta di non mollare, di cercare a continuare, camminando sempre più piano e respirando a bassa voce. Ma... come dice il mio fratello adottivo Pino Piatti "la sostenibilità va sostenuta", l'arte sociale, quella sostenibile e l'arte indipendente in generale, vanno sostenute perché la morte lavorativa di un artista indipendente è una perdita per tutti. Ecco allora che ritorna la frase dell'inizio per fugare i sospetti di personalismi: seguite il mio lavoro (e ora che è molto economico acquistatelo pure, se volete) per aiutarmi a continuare, ma prima di tutto sostenete l'arte indipendente dovunque essa di annidi, si nasconda, stia soffrendo. Gli artisti sociali, indipendenti, hanno bisogno che gli si rivolga sempre la stessa domanda, qualunque sia la loro arte: cosa possiamo fare per te? E la risposta più bella è sostenerci, aiutarci, far circolare le nostre opere, discuterle, magari criticarle, salire sulla zattera # 11 e, soprattutto, all'arte... voleteci bene! 

venerdì 7 febbraio 2014

finalmente una citazione anch'io

C'è una cosa che ho sempre odiato nella vita (ammesso che si possa odiare una cosa) e sono le citazioni degli autori letterari e le persone che le utilizzano, anche se ben scelte e appropriate al discorso. Tuttavia, oggi ho letto le parole di una grande quanto misconosciuta (cioè ignorata dai grandi editori italiani perché poco avvezza alle smancerie, ai compromessi e alle ruffianerie) autrice della letteratura italiana, Savina Dolores Massa, in un'intervista a uno dei pochi giornalisti che si avventurano fin laggiù, nella Patagonia meridionalis oristaniensibus sardiniae.
Allora anch'io, correndo il rischio di odiarmi quando leggerò, faccio una citazione! Lei dice, riferendosi alla sua scrittura e ai suoi personaggi, qualcosa che io penso sempre e che non avrei saputo dire con altrettanta bravura. Non essendone capace, prendo le sue parole e ve le giro, chiedendovi di sostituire ai suoi personaggi le scene delle mie opere fotografiche di cui, onore grande, due sono finite a fare da copertina dei suoi due libri che l'intervistatore riconosce come più trasparentemente sociali. Sarà un caso? Non credo. La seconda parte riguarda la poesia che pervade le sue storie e le mie fotografie.
"Considero l’esistenza la migliore fonte teatrale da cui attingere. Anche volendo impedire ai miei personaggi di agire come preferiscono, loro nascono attori. Io conto poco, sono ingovernabili, dormono quando vogliono, dialogano tra loro ignorandomi. Spesso sono consapevole di non essere regista di un bel niente. Raccontare è sempre teatro, e alla fine c’è un sipario che si chiude. A volte applausi, a volte no: questo mi piace molto.
(...) Lei (la poesia) arriva come nebbia sopra ogni mia parola: è inevitabile. Pur cruda sa possedere una sua dolcezza. Non saprei mai scrivere senza la sua compagnia. Certe volte ci provo, snaturandomi, ma torno all’istante dalla mia anima."
Grazie Savina, amore mio.