giovedì 8 dicembre 2016

I tempi, i diaframmi e la disciplina delle cose semplici.

Accade da molti anni ormai di vivere in un mondo dominato dalla comunicazione di massa, anzi, per dire meglio, della comunicazione alle masse. E questo lo sappiamo. Ma troppo spesso ci dimentichiamo che le masse siamo noi, le masse sono quelli che sono costretti in questo disequilibrio planetario ad assorbire, ad ascoltare quello che viene raccontato e rappresentato, perché da una parte non hanno un reale potere di conoscere le cose decisive che accadono nel proprio paese e nel pianeta tutto e, dall'altro, non hanno nessun mezzo potente per informare un numero significativo di "altri" rispetto alle cose che invece accadono intorno a loro e di cui sono testimoni. 
Le masse siamo noi, quelli che finiscono per vivere in una gigantesca bolla la cui aria è costituita appunto da quelle informazioni che i pochi con il potere di farlo inseriscono ad arte. E cosa succede dopo tanta esposizione a quest'aria viziata? Succede che ne siamo completamente pervasi e la respiriamo senza più accorgercene e diventiamo protagonisti di scelte e di vite che nemmeno più ci appartengono.
Questa banale metafora in cui l'aria che respiriamo è paragonata in maniere elementare all'informazione alle masse – cioè alla conoscenza delle cose che accadono lontano da noi, là dove noi non stiamo fisicamente, non siamo presenti con gli occhi e le orecchie aperte e liberi da condizionamenti – mi è venuta in mente in queste ore in cui sono stati pubblicati i risultati del referendum costituzionale del 4 dicembre 2016, Santa Barbara! 
Sarebbe troppo lungo e fuori dalla mia capacità di analisi sociologica una descrizione del processo che ci ha portati in questi lunghissimi anni a vivere così, in questo modo improbabile, dove la vita di ognuno e ognuna di noi non fa che peggiorare giorno dopo giorno, dove il progresso è diventato una pagina di storia ingiallita e i protagonisti dell'informazione alle masse ci tengono svegli e allegri artificialmente come con le galline dalle lampade accese nelle stalle. 
Mi limito quindi a scrivere le mie spontanee riflessioni e le racconto in modo oscillante e lievemente sfocato postandole sotto la fotografia di un meraviglioso bocciolo che spunta in purezza da una rosa appassita al Roseto della Villa Reale di Monza. Forza della metafora!
Ascoltiamo volontariamente menzogne, ce ne convinciamo e viviamo come se quella fosse la realtà. E se ne convincono persone che io conosco e di cui apprezzo l'intelligenza, la cultura, l'onestà. Ripetono slogan e frasi che non poggiano su niente e nascondono le verità semplici che potrebbero scoprire facilmente mettendo a nudo quell'informazione manipolata, quell'aria viziata che respirano. 
Ma perché lo fanno? Perché a dosi differenti per ognuno di noi lo facciamo? A quale mondo pensiamo quando continuiamo a convincerci e a ripetere cose false o altamente improbabili che sappiamo essere di parte, motivate da interessi che in fin dei conti non sono i nostri, che potrebbero portare dei benefici per noi effimeri, lontanissimi, o quasi sempre non li portano e – attenzione attenzione – non li hanno portati per niente già in passato? 
Continuiamo a subire anche dopo aver avuto una, due, tre, cento verifiche della falsità e della menzogna di quelle argomentazioni, notizie, analisi. Ci rimettiamo il cappuccio e continuiamo a camminare sorridendo a testa bassa, forse per non piangere. 
Difendiamo poteri forti e stili di vita che non sono nostri, che non raggiungeremo mai e che forse non ci interesserebbe nemmeno raggiungere. Ci iscriviamo idealmente a club esclusivi che ridono di noi e non ci farebbero mai entrare nelle stanze del comando. Non ci ricordiamo di aver sentito parlare, di avere letto dei semplici perché che pure da qualche parte non lontanissima esistono e sono stati svelati fin nei minimi dettagli da coraggiosi individui che li hanno già smascherati. Tutto ci è stato detto ANCHE in un modo differente, vero, più vicino alla realtà dei fatti, tutto è già stato pubblicato: le guerre, le stragi, gli omicidi, le mafie, la politica, il condominio, il lavoro, il clima, le migrazioni e tutto e tutto e tutto. Volendo, sappiamo già tutto. Voltiamoci indietro a guardare lo sviluppo dei grandi fatti della storia recente: tutto era già chiaro e conosciuto fin dall'origine, fin dalle prime menzogne: da Peppino Impastato alla Guerra del Golfo, dalla storia di questo assurdo referendum alle stragi di migranti, da Ilaria Alpi alle bombe di piazza, dagli aerei che esplodono alle cure per l'AIDS in Africa, dall'EXPO vero a quello raccontato.
Mi chiedo allora perché non diventiamo tutti maggiormente osservanti di quella che chiamerei disciplina delle cose semplici che ci dovrebbe far dire: la verità è piccola, quasi sommersa, ma c'è, la conosco ed è diversa da quella che viene raccontata ogni giorno a miliardi di persone, la vado a scavare e magari me ne faccio addirittura portavoce. 
Credo che ciò avvenga perché ormai le masse che vivono artificialmente quelle vite a prestito sono diventate troppo grandi, sono aggressive, sono dappertutto, si sono autoproclamate vincenti (!!!) al pari dei vincenti veri, di quei pochissimi che comandano. Queste masse ci schiacciano, ci soffocano nella nostra piccola diversità, nella nostra accanita e a volte ossessiva ricerca di semplicità. I valori, le convinzioni dominanti non riusciamo più a combatterli perché sono entrati nel cuore dei nostri vicini, dei nostri amici, dei nostri amori e una loro  difesa ci mostrerebbe agli occhi di queste persone come romantici, anacronistici, idealisti, troppo-puri, scomodi, fastidiosi, perdenti, sfigati, secondari, marginali, inferiori. E noi non possiamo permettercelo: siamo troppo deboli, troppo soli, è troppo faticoso, troppo doloroso. 
Ma saremo sempre deboli se continueremo a contarci e immaginarci cosi: uno, uno, uno, uno. Dovremmo pian piano cominciare a contarci uno, due, tre, quattro. In quel caso ci sentiremmo sicuramente più forti. Ma anche questo non basterebbe. Ci vorrebbe anche in questo caso un cambio di prospettiva, dovremmo amare di più la disciplina delle cose semplici. Non basta essere in tanti occorre essere liberi e felici di indossare quella veste da "elementare", da "semplice", e presentarsi noncuranti dell'opinione delle masse che ci circondano, ci giudicano e ci guardano strani da sotto ai cappucci, sapendo che la verità non dobbiamo farcela inculcare ma dobbiamo cercarla e raccontarla al di fuori di interessi di parte concreti o immaginari che siano, e, soprattutto, al di fuori dei nostri interessi personali e della nostra ricerca di potere individuale. Una verità scomoda e dolorosa – che potrebbe riguardare lo stato della nostra vita presente e futura, il nostro lavoro e quello dei nostri figli, le difficoltà dei nostri amici e delle persone che ci circondano, il dolore profondo delle relazioni moderne tra individui vicini e lontani sarebbe sempre meglio di una menzogna, sarebbe meglio conoscerla per quello che è e raccontarsela piuttosto che seppellirla nella polvere. 
Per riportare il pensiero nell'alveo di questo blog dedicato alla fotografia e alla politica, dico che nella mia esperienza di artista, la semplicità di questa disciplina sociale è molto simile a quella che esiste per la fotografia d'autore, dove si racconta il pensiero di un uomo o di una donna attraverso un fotogramma di poesia e di luce. Un prodotto apparentemente complesso, esattamente come la nostra vita sociale, ma costituito in fondo da tanti elementi semplici, elementari, che vanno combinati in una struttura articolata e potente, funzionale come un bilancio di un'azienda, la gestione di una ASL o la riforma di una costituzione democratica
Ecco a cosa penso quando penso alla disciplina delle cose semplici: un processo rigoroso, disciplinato appunto, libero, lungo il quale attingere a valori reali e dare vita a un progetto reale, da condividere, veritiero, che non domandi asservimento a poteri di altri che non diventeranno mai nostri e che non dovremmo nemmeno nominare, una vita di pensiero che non ci costringa a mentire a noi stessi, che sia leggero e libero ma forte e destinato a farci del bene. Quindi, per saltare alla fotografia, non realizzare scatti alla maniera di..., secondo la moda imperante in rete, ma scattare immagini nuove, regolando con lentezza e consapevolezza tempi e diaframmi, mettendo a fuoco per ricercare le verità della realtà che abbiamo di fronte e raccontarle in maniera originale, finalmente nostra.
Da questa semplicità individuale credo possa derivare un maggiore benessere per tutti e anche... un migliore album di foto, in quest'epoca di sofferenza globale per l'occhio e per il cuore. Tuttavia, per fare ciò dobbiamo avere la forza di lasciare da parte i nostri interessi, sì! i nostri interessi spasmodicamente difesi e dedicare una parte importante delle nostre forze alla formazione di un interesse comune, portato verso il più grande numero di persone possibili e non asservirci volontariamente al mondo del potere e dell'interesse privatissimo di pochissimi che di noi, delle masse, non si curano affatto e che... non guarderebbero mai le nostre fotografie perchè non saremo seduti mai nel loro fottutissimo salotto.

venerdì 11 novembre 2016

11_11_11 La nascita del lupo e la "pressione di genere".


Sono passati 5 anni dall'uscita del libro e oggi 11 novembre 2016 posso raccontare un pezzo della sua vita, timida, piuttosto isolata ma coraggiosa: sono fiero di lui! Delle 1490 copie stampate a spese mie oltre 1200 sono state vendute. Quasi una per una, a volte una sola soletta in presentazioni in periferia, altre volte tante insieme in affollate conferenze. Certamente, per un libro senza editore, senza pubblicità, quasi senza libreria e senza recensioni da parte dei pur numerosi professionisti e professioniste della stampa che lo hanno conosciuto, direi che è stato un risultato che mi fa dire "ne valeva la pena". Intanto l'Italia mi sembra ulteriormente cambiata, andando mestamente verso una piccola e silenziosa palude bollente, la tensione sociale è ulteriormente diminuita e le donne continuano ad essere ammazzate dai mariti. Dal canto suo, la pubblicità stradale non fa una piega, continua per la sua strada, non cambia, non si rinnova, passa alle bambine come previsto, continua nella stanca scia di un'epoca maschilista che sta definitivamente tramontando ma loro non possono dirlo e fanno finta di niente. Danno le ultime batoste, gli ultimi micidiali colpi di coda. In questi 5 anni tante altre donne sono emerse sulla scena nazionale e mondiale, nei luoghi del potere a vario livello e ormai si comincia a sentire forte quella che mi piacerebbe chiamare "la pressione di genere", cioè la spinta che non può che essere destinata al successo dei milioni e milioni di donne che negli anni passati e difficilissimi del maschilismo "antropologico", cioè millenario, hanno studiato, hanno lottato, hanno capito, si sono fatte largo. Ora sono lì, a milioni, pronte, che sanno come si fa camminare un treno, come si programma l'economia capitalista e anche quella non capitalista, come si amministra una città, una banca, un corpo dei vigili urbani. Siedono nei banchi alti della politica,  della giustizia, della scienza, molto in alto e ci affiancano pronte a superarci. Dal canto nostro, come fa la pubblicità, noi uomini continuiamo a far finta di niente, crediamo che il nostro potere maschile sia eterno, sia biologico, ma non è più così. Tramontata la clava, inutile il muscolo, oggi si schiacciano tasti leggerissimi, si sfiorano schermi cristallini, si comanda con la parola e l'immagine. Cose immateriali, affidate al pensiero, al sapere-come-si-fa. La rivoluzione è finita, ma nessuno ce lo dice. Sarebbe utile a questo punto addirittura anticipare i tempi e cominciare già a discutere che tipo di potere sarà quello delle donne al potere, che destino avremo noi uomini lentamente scivolati fuori per nostra manifesta incapacità di restare lì, dove si comanda il mondo. Ci vorranno ancora degli anni, ma tutti i processi in via di formazione passano per strade lente e inarrestabili e sarebbe meglio interrogarsi fin da ora su quello che troveremo alla fine del sentiero. 
Intanto, non fate finta di niente anche voi e prendete in mano una delle ultime copie del piccolo, timido libro di un fotografo che tanti anni fa ci aveva creduto. 

giovedì 7 aprile 2016

Il babà, gli amici e Pasquetta

Ci sono luoghi e date che abbiamo il dovere di coltivare come una parte importante di noi, della nostra storia, della nostra vita collettiva e intima. Una di queste date, fusa con un luogo ormai rituale, è la pasquetta a casa di Gabriele e Chiara. Quarello e Vitiello: si sono sposati che fanno pure rima...  e delle loro tre figlie che crescono in fretta come gli alberi di limoni sul terrazzino.
Ci sono andato tutte le volte che ho potuto in questi ultimi anni non tanto per fare un piacere a loro, ma per farlo a me e alle persone che ci sono venute con me. Una casa di traverso al giardino che è messo di traverso al panorama sulla città della Cava, le mie origini, che guardo da lontano come se fosse un film. Ci arrivo sempre che la piccola brace è già accesa e questo è un primo elemento distintivo: si tratta sempre di strutturine pericolanti, timide, troppo piccole e malferme, dove però vengono arrostiti cibi di bontà sublime. Niente fornetti bianchi da villetta al mare, niente sfarzi di barbecù con termoaspiratore: una "gratiglia" o dei blocchi di cemento di colori diversi incastrati in qualche modo dove implacabile arde la brace di legna a metri zero. Sì, qui si mangiano e si bruciano cose a metri zero, o due. I limoni se non stai attento ti possono anche cadere nel piatto se ci stai seduto sotto. 
Descritto così, sembrerebbe un posto dove vai per mangiare e basta, abboffarti spudoratamente anche nel giorno dopo l'abboffata pasquale. E invece no! Io ci vado per farmi una sauna di amicizia, un bagno benevolo tra persone di cui spesso ignoro tanta parte di storia, confondo nomi e cognomi, ritrovo solo qui a pasquetta, di anno in anno. A volte più magri a volte più grassi, come me del resto. L'amicizia di cui sto parlando è un vento tiepido che entra sotto la maglia e ti rende immune dai rafreddori dell'indifferenza cittadina che da troppo tempo mi vortica intorno. Sono persone essenziali, dirette, che si muovono finalmente piano e che hanno la costanza di restare due, tre, quattro ore vicino alla brace per arrostire carciofi (grandi assenti dell'edizione 2016) salsicce, pancette, pane e pomodoro e, da quest'anno, foglie di limone attorno a tutto. Una nuova droga, un delirio di profumo che ha cominciato a foderare ogni pietanza: dal coniglio alle salsicce, bruciacchiando al calore e producendo tizzoni odorosi di costiera e vecchie zie. Mi sento voluto bene e circolo senza meta tra la cucina arredata con la dolcezza sicura di Chiara e il giardinetto dove quel bellissimo coltivatore-dalla-faccia-di-attore-americano di Gabriele ridisegna ogni anno percorsi di improbabili recinti per tartarughe, melanzane, antiche piante di calle, compostiere rigorosamente bio e legna da ardere. Il cibo allora diventa un modo per tenerci più stretti, per offrire all'altro la cosa migliore che sappiamo fare, per mettercela tutta a restare nel solco delle tradizioni con la dose di fiori d'arancio come diceva la nonna ma sconvolta dall'innovazione della cugina che non sappiamo perché sia stata ascoltata. E quando ti sembra che sia finita, quando il babà giace muto nella "guantierina", fiero del suo profilo a piede di elefante che mi ricorda sempre la mia prima comunione, ritornano le salsicce, le migliori della giornata, quelle lasciate ad arrostire da sole in un atto di autocoscienza culinaria a beneficio dei fuochisti che sono rientrati in cucina. E poi i "limoncelli" che però sono fatti con i cedri di Santa Maria del Cedro, il mirto con le bacche "colte" da Gabriele distrattamente in un giardino, con rosoli in bottiglie senza aspettative ma che aspetteresti tutta la vita per averne il contenuto. 
E io in tutto questo benessere do di mano alla mia natura, prendo la mia macchina fotografica e fotografo tutto, pezzi di pastiera, resti di pasta al forno, foglie costodi di pezzettini di coniglio, pastiere semisventrate, bicchierini, piatti unti di olio dal colore dell'oro, limoni e gelsomini profumati. Mi perdo con l'occhio, ma soprattutto col cuore, a immortalare questa semplicità, questa natura che è naturalezza, questa amicizia che si riflette nei vetri gialli di alcool. Mi sembra di fare una cosa importante, scattare delle fotografie "proletarie", dalla parte del popolo che mangia e non dei tipi che vendono, di fare una cosa giusta che deve restare, senza il segno dell'eleganza finta ma della vita vera. Delle foto che siano il nostro distintivo, la nostra memoria semplice e, perciò, rivoluzionaria e avanti.