lunedì 5 febbraio 2018

La strada sbagliata e il regno del silenzio


Capita molto spesso di essere investiti da notizie di morti per incidenti sul lavoro, di tragedie ferroviarie, di uomini che in quanto uomini uccidono donne in quanto donne, di alluvioni devastanti, di gente che spara per uccidere l'altro da sé e così via piangendo. Cronisti e comunità si attivano per due o tre giorni e lanciano accorate dichiarazioni di solidarietà, sdegno, a volte addirittura di stupore, gridando "mai più" in faccia a quel dramma. Si scrivono striscioni sulle lenzuola tolte dall'armadio e poi si torna al regno del silenzio, si continua come prima anzi, a ben vedere, peggio di prima. Ma cos'è che ci attanaglia in questa morsa moderna in cui assistiamo impotenti al consumarsi di tutto ciò, dalla piccola storia di condominio fino agli armamenti nucleari e restiamo indifferenti, come se la cosa non potesse mai toccare a noi e come se noi fossimo sempre del tutto estranei ai percorsi che hanno generato quella tragedia? 
Nella mia vita di artista sociale ho cercato di rispondere a questa domanda, anche quando non sapevo ancora di essere un artista sociale e scattavo semplicemente fotografie. Lo facevo in silenzio, come il mezzo fotografico aiuta a fare; forse questo isolamento non ha giovato alla condivisione del mio turbamento, indebolendo la mia capacità di metterlo in comune fin dalla fase di creazione: l'enormità di questi fenomeni, la loro diffusione e soprattutto l'accettazione "popolare" che si manifestava attraverso omertà, indifferenza, colpevoli menzogne, sorrisetti complici mi hanno spinto a mettere una specie di silenziatore alla mia camera e a farlo principalmente dentro di me, per me, rimandando l'urlo di dolore al momento in cui le mie opere sarebbero diventate stampe incorniciate, lezioni in aule scolastiche, poesie o scene teatrali. Ma all'inizio non lo sapevo. All'inizio non sapevo che fine avrebbero fatto quelle immagini in cui cercavo per le strade di Milano le radici della cultura della violenza degli uomini e della società sulle donne attraverso scatti ai cartelloni della pubblicità stradale, oppure fotografando le finestre di alluminio anodizzato che negli anni '70 devastavano facciate di palazzetti rinascimentali della mia città. Non lo sapevo. Scattavo e basta. Accumulavo rulli di scene in cui qualcosa stava accadendo, qualcosa era nata e cresceva nel silenzio del primo momento, quando quella "cosa" non era ancora grande ma non era più assente dal nostro panorama umano e sociale. Il fenomeno nel momento del suo divenire, l'alba della notizia su cui poi avremmo pianto negli anni successivi. Quando oggi racconto queste storie ai ragazzi, loro ascoltano con aria interrogativa e dopo un po' mi chiedono chi mi avesse chiesto di fare queste foto, chi mi avesse pagato per cercare quei soggetti spesso di così difficile reperimento e interpretazione, spesso soggetti simbolici, non di cronaca giornalistica, come i fiori che spuntano dalle rocce dei templi di Selinunte e che per me sono diventati Peppino Impastato in antichissimo fiore. La risposta a questa domanda, che può contribuire anche a rispondere alla domanda principale di questa riflessione è sempre stata "nessuno!" e genera di solito ulteriori espressioni interrogative sui loro volti. È difficile far capire – a loro che sono giovani oggi, ma anche a persone più adulte già immerse della dinamica sociale contemporanea italiana – che si può anche fare senza che nessuno ce lo chieda, interpretando il proprio ruolo sociale come quello di cittadine e cittadini attive/i. A spese proprie e nel tempo proprio. Una cosa di cui spesso quelle classi non hanno mai sentito parlare e quando la vengono a conoscere – la cittadinanza attiva, cioè "tu che ti sporchi le mani scendendo per strada e combattendo per un'idea che ritieni giusta" – riescono appena appena a sorridere, rilanciandomi quella sorta di estraneità tra me che l'ho fatto e loro che non sapevano che si poteva e doveva fare. Tuttavia, io sono andato avanti nella mia marginalità scomoda, contribuendo nel mio piccolo alla nascita di tiepide riflessioni che in alcuni casi sono poi diventate prese di coscienza matura, applicate a più vasti orizzonti di diritti e progresso sociale sostenibile. 
Ci attanaglia dunque questa forza schiacciante della maggioranza indifferente e complice che risucchia anche noi, ci attanagliano le bugie ripetute ai telegiornali che diventano crudelmente realtà a furia di essere ripetute, ci attanaglia l'interesse personale che è stato sostituito di sana pianta e senza più voglia di discuterne alla bellezza del bene comune, ci attanaglia la povertà morale in cui siamo venuti lentamente a trovarci anche per colpa nostra e che ci lascia fermi e muti quando vediamo per strada un genitore picchiare un bambinetto di due anni o quando sentiamo le urla attraverso le pareti di quella donna che tra qualche giorno sarà distesa sul tavolo dell'obitorio. E io non mi sento migliore! So di aver fatto troppo poco e di essermi mille volte fermato per mancanza di energie da buttare nella fornace. Tuttavia, voglio continuare a cercare di liberarmi da queste tenaglie che mi vorrebbero impotente, lottare – prima di tutto dentro di me – per tenermi strette quelle energie che ancora sento vive e continuare a pensare che sarà bello condividerle con le altre e gli altri, partendo proprio dalle piccole comunità, dal mio microcosmo, dalle persone che condividono il mio spazio civico e che vorranno camminare su un'altra strada, una strada che ci porti fuori, anche lentamente, dai confini mefitici del regno del silenzio.