venerdì 7 febbraio 2014

finalmente una citazione anch'io

C'è una cosa che ho sempre odiato nella vita (ammesso che si possa odiare una cosa) e sono le citazioni degli autori letterari e le persone che le utilizzano, anche se ben scelte e appropriate al discorso. Tuttavia, oggi ho letto le parole di una grande quanto misconosciuta (cioè ignorata dai grandi editori italiani perché poco avvezza alle smancerie, ai compromessi e alle ruffianerie) autrice della letteratura italiana, Savina Dolores Massa, in un'intervista a uno dei pochi giornalisti che si avventurano fin laggiù, nella Patagonia meridionalis oristaniensibus sardiniae.
Allora anch'io, correndo il rischio di odiarmi quando leggerò, faccio una citazione! Lei dice, riferendosi alla sua scrittura e ai suoi personaggi, qualcosa che io penso sempre e che non avrei saputo dire con altrettanta bravura. Non essendone capace, prendo le sue parole e ve le giro, chiedendovi di sostituire ai suoi personaggi le scene delle mie opere fotografiche di cui, onore grande, due sono finite a fare da copertina dei suoi due libri che l'intervistatore riconosce come più trasparentemente sociali. Sarà un caso? Non credo. La seconda parte riguarda la poesia che pervade le sue storie e le mie fotografie.
"Considero l’esistenza la migliore fonte teatrale da cui attingere. Anche volendo impedire ai miei personaggi di agire come preferiscono, loro nascono attori. Io conto poco, sono ingovernabili, dormono quando vogliono, dialogano tra loro ignorandomi. Spesso sono consapevole di non essere regista di un bel niente. Raccontare è sempre teatro, e alla fine c’è un sipario che si chiude. A volte applausi, a volte no: questo mi piace molto.
(...) Lei (la poesia) arriva come nebbia sopra ogni mia parola: è inevitabile. Pur cruda sa possedere una sua dolcezza. Non saprei mai scrivere senza la sua compagnia. Certe volte ci provo, snaturandomi, ma torno all’istante dalla mia anima."
Grazie Savina, amore mio.

lunedì 3 febbraio 2014

Mi guardo la faccia e mi tengo compagnia. Con tenerezza.

Guardo qualcosa che non c'è. Appoggiato alla ringhiera del porto di Genova durante gli ultimi minuti di una bella giornata di workshop trascorsa con le mie allieve e allievi del corso base di quest'inverno. Arriviamo a Genova in una giornata abbastanza calda e ci muoviamo piano nel centro storico. Alla fine mi appoggio ai ferri sul mare e nel mettermi in posa per un ritratto mi perdo a guardare nel vuoto. 
Ora che mi vedo in questo ritratto mi faccio tenerezza: non sono più giovane e i segni degli anni si misurano nella pelle più rovinata, nelle rughe sotto gli occhi, nei capelli bianchi che spuntano dal basco nuovo, nel silenzio dello sguardo. Il pullover ha almeno 15 anni e, lui sì!, si mantiene giovane. 
Ma cosa sto guardando? a cosa penso? Sicuramente penso ai giorni che stanno per venire, al giorno dopo, 27 gennaio in cui farò il trasloco dalla mia casa di convivente alla stanza da singolo che mi aspetta. Tanti interrogativi e soprattutto tanti vuoti davanti a me, senza alcuna certezza né sul prima da interpretare, né sul dopo da inventare, necessariamente diverso dal prima.
Ho gli occhi miti e l'espressione di uno che sa che ha perso troppe battaglie nella vita per aver ancora voglia di combattere. Mi sembro stanco dalla faccia e dall'espressione, ma ho una punta di sorriso, un sorriso che direi benevolo verso quello che ancora mi resta da vivere. Poco o molto che sia mi sembra che non vado di fretta.