venerdì 18 maggio 2018

Cavalieri imbecilli su merli sbagliati. 2

(continua)

Per cercare di capire, sono stato il giorno dopo al Comune per intervistare i funzionari degli uffici preposti. Già, ma preposti a che? Di cosa si trattava? Di un contratto legale? Di una licenza edilizia? Di un richiesta di sfruttamento del patrimonio culturale e storico per fini economici privati? Magari di sicurezza nazionale? Di un'utilizzazione privata di un pezzo del patrimonio comunale? Di un fascicolo della Soprintendenza? 
La domanda cade nella sorpresa generale. Nessuno al comune sembra aver mai visto le antenne. Qualcuno crede, immagina, prospetta... Con grande gentilezza (tratto sicuramente da lodare del personale in ogni ufficio consultato) mi viene detto che è meglio fare una richiesta di visione di atti pubblici "a ventaglio" cioè a più dipartimenti perché la cosa non è chiara. Ne investo quattro: i lavori pubblici, il patrimonio, l'ufficio legale e naturalmente il Sindaco. Protocollo il 2 maggio 2018.
A distanza di 15 giorni ieri mi sono recato al Comune dove ho avuto la chiara sensazione che la situazione di incertezza fosse stata impugnata. Diversi uffici erano contemporaneamente al lavoro per cercare di comprendere da dove fossero spuntate tutti questi mostruosi cavalieri telecominicanti.
Il documento che mi viene prontamente consegnato è un verbale della CEI (commissione edilizia) che esprime senz'altro parere negativo per una singola richiesta di istallazione di antenna del 2004 con una bella relazione tecnico-storica che esclude la possibilità di istallare "sul Monte Castello" (quindi nemmeno si ipotizza un "dentro ai merli del Monte Castello") alcun impianto e, anzi, caldeggia per l'intera arera "interventi di tutela e recupero". 
Per il momento altri documenti successivi non sono stati rinvenuti, ma la ricerca continua.

(continua)

Cavalieri imbecilli su merli sbagliati. 1

Non salivo al Monte Castello da moltissimi anni e finalmente ci sono andato alla fine di aprile 2018 dopo aver visto da "terra", cioè dalla Piazza, una piccola selva bianca svettare tra i merli della costruzione simbolo della città: Castiell'.
Prima di arrivare ho esplorato la possente muraglia co le sue opere militari che mai avevo valorizzato in tutta la sua importanza architettonica e monumentale, attratto dal bel restauro del complesso (retrostante il castello più famoso) su cui varrà la pena di soffermarsi in altra occasione, perché la magnifica struttura, per lo più sconosciuta alla città, giace purtroppo in stato di semi-abbandono. 
La parte "spettacolare" del Castello è quella che vediamo dalle terrazze delle nostre case, avvolta dai fuochi della "Festa" per eccellenza. Una costruzione rifatta in varie epoche ma che mostra coraggiosamente ancora alcuni brani delle opere più antiche, fuse in un'unica cartolina di paese dopo la creazione "cinematografica" dei merli in cemento armato.  
La rocca oggi appare oggi "scempiata". Il verbo scempiare non credo esista, ma è il solo che mi viene da utilizzare per questa scena che ho fotografato da varie angolature. Una selva di antenne di varia foggia e misura è stata letteralmente cementata dentro ai merli, creando una specie di palcoscenico da teatrino dei pupi che, se non fosse tragico, bisognerebbe ammettere che addirittura presenta una sua forza evocatrice, insospettata, casuale e micidiale al tempo stesso.
Non è possibile che nessuno le abbia notate e che non si sia chiesto quale sia l'origine di questo atto vandalico. Per il momento non posso fare altro che scattare, tornare a valle e cercare di capire.

(continua)

lunedì 5 febbraio 2018

La strada sbagliata e il regno del silenzio


Capita molto spesso di essere investiti da notizie di morti per incidenti sul lavoro, di tragedie ferroviarie, di uomini che in quanto uomini uccidono donne in quanto donne, di alluvioni devastanti, di gente che spara per uccidere l'altro da sé e così via piangendo. Cronisti e comunità si attivano per due o tre giorni e lanciano accorate dichiarazioni di solidarietà, sdegno, a volte addirittura di stupore, gridando "mai più" in faccia a quel dramma. Si scrivono striscioni sulle lenzuola tolte dall'armadio e poi si torna al regno del silenzio, si continua come prima anzi, a ben vedere, peggio di prima. Ma cos'è che ci attanaglia in questa morsa moderna in cui assistiamo impotenti al consumarsi di tutto ciò, dalla piccola storia di condominio fino agli armamenti nucleari e restiamo indifferenti, come se la cosa non potesse mai toccare a noi e come se noi fossimo sempre del tutto estranei ai percorsi che hanno generato quella tragedia? 
Nella mia vita di artista sociale ho cercato di rispondere a questa domanda, anche quando non sapevo ancora di essere un artista sociale e scattavo semplicemente fotografie. Lo facevo in silenzio, come il mezzo fotografico aiuta a fare; forse questo isolamento non ha giovato alla condivisione del mio turbamento, indebolendo la mia capacità di metterlo in comune fin dalla fase di creazione: l'enormità di questi fenomeni, la loro diffusione e soprattutto l'accettazione "popolare" che si manifestava attraverso omertà, indifferenza, colpevoli menzogne, sorrisetti complici mi hanno spinto a mettere una specie di silenziatore alla mia camera e a farlo principalmente dentro di me, per me, rimandando l'urlo di dolore al momento in cui le mie opere sarebbero diventate stampe incorniciate, lezioni in aule scolastiche, poesie o scene teatrali. Ma all'inizio non lo sapevo. All'inizio non sapevo che fine avrebbero fatto quelle immagini in cui cercavo per le strade di Milano le radici della cultura della violenza degli uomini e della società sulle donne attraverso scatti ai cartelloni della pubblicità stradale, oppure fotografando le finestre di alluminio anodizzato che negli anni '70 devastavano facciate di palazzetti rinascimentali della mia città. Non lo sapevo. Scattavo e basta. Accumulavo rulli di scene in cui qualcosa stava accadendo, qualcosa era nata e cresceva nel silenzio del primo momento, quando quella "cosa" non era ancora grande ma non era più assente dal nostro panorama umano e sociale. Il fenomeno nel momento del suo divenire, l'alba della notizia su cui poi avremmo pianto negli anni successivi. Quando oggi racconto queste storie ai ragazzi, loro ascoltano con aria interrogativa e dopo un po' mi chiedono chi mi avesse chiesto di fare queste foto, chi mi avesse pagato per cercare quei soggetti spesso di così difficile reperimento e interpretazione, spesso soggetti simbolici, non di cronaca giornalistica, come i fiori che spuntano dalle rocce dei templi di Selinunte e che per me sono diventati Peppino Impastato in antichissimo fiore. La risposta a questa domanda, che può contribuire anche a rispondere alla domanda principale di questa riflessione è sempre stata "nessuno!" e genera di solito ulteriori espressioni interrogative sui loro volti. È difficile far capire – a loro che sono giovani oggi, ma anche a persone più adulte già immerse della dinamica sociale contemporanea italiana – che si può anche fare senza che nessuno ce lo chieda, interpretando il proprio ruolo sociale come quello di cittadine e cittadini attive/i. A spese proprie e nel tempo proprio. Una cosa di cui spesso quelle classi non hanno mai sentito parlare e quando la vengono a conoscere – la cittadinanza attiva, cioè "tu che ti sporchi le mani scendendo per strada e combattendo per un'idea che ritieni giusta" – riescono appena appena a sorridere, rilanciandomi quella sorta di estraneità tra me che l'ho fatto e loro che non sapevano che si poteva e doveva fare. Tuttavia, io sono andato avanti nella mia marginalità scomoda, contribuendo nel mio piccolo alla nascita di tiepide riflessioni che in alcuni casi sono poi diventate prese di coscienza matura, applicate a più vasti orizzonti di diritti e progresso sociale sostenibile. 
Ci attanaglia dunque questa forza schiacciante della maggioranza indifferente e complice che risucchia anche noi, ci attanagliano le bugie ripetute ai telegiornali che diventano crudelmente realtà a furia di essere ripetute, ci attanaglia l'interesse personale che è stato sostituito di sana pianta e senza più voglia di discuterne alla bellezza del bene comune, ci attanaglia la povertà morale in cui siamo venuti lentamente a trovarci anche per colpa nostra e che ci lascia fermi e muti quando vediamo per strada un genitore picchiare un bambinetto di due anni o quando sentiamo le urla attraverso le pareti di quella donna che tra qualche giorno sarà distesa sul tavolo dell'obitorio. E io non mi sento migliore! So di aver fatto troppo poco e di essermi mille volte fermato per mancanza di energie da buttare nella fornace. Tuttavia, voglio continuare a cercare di liberarmi da queste tenaglie che mi vorrebbero impotente, lottare – prima di tutto dentro di me – per tenermi strette quelle energie che ancora sento vive e continuare a pensare che sarà bello condividerle con le altre e gli altri, partendo proprio dalle piccole comunità, dal mio microcosmo, dalle persone che condividono il mio spazio civico e che vorranno camminare su un'altra strada, una strada che ci porti fuori, anche lentamente, dai confini mefitici del regno del silenzio.