giovedì 7 aprile 2016

Il babà, gli amici e Pasquetta

Ci sono luoghi e date che abbiamo il dovere di coltivare come una parte importante di noi, della nostra storia, della nostra vita collettiva e intima. Una di queste date, fusa con un luogo ormai rituale, è la pasquetta a casa di Gabriele e Chiara. Quarello e Vitiello: si sono sposati che fanno pure rima...  e delle loro tre figlie che crescono in fretta come gli alberi di limoni sul terrazzino.
Ci sono andato tutte le volte che ho potuto in questi ultimi anni non tanto per fare un piacere a loro, ma per farlo a me e alle persone che ci sono venute con me. Una casa di traverso al giardino che è messo di traverso al panorama sulla città della Cava, le mie origini, che guardo da lontano come se fosse un film. Ci arrivo sempre che la piccola brace è già accesa e questo è un primo elemento distintivo: si tratta sempre di strutturine pericolanti, timide, troppo piccole e malferme, dove però vengono arrostiti cibi di bontà sublime. Niente fornetti bianchi da villetta al mare, niente sfarzi di barbecù con termoaspiratore: una "gratiglia" o dei blocchi di cemento di colori diversi incastrati in qualche modo dove implacabile arde la brace di legna a metri zero. Sì, qui si mangiano e si bruciano cose a metri zero, o due. I limoni se non stai attento ti possono anche cadere nel piatto se ci stai seduto sotto. 
Descritto così, sembrerebbe un posto dove vai per mangiare e basta, abboffarti spudoratamente anche nel giorno dopo l'abboffata pasquale. E invece no! Io ci vado per farmi una sauna di amicizia, un bagno benevolo tra persone di cui spesso ignoro tanta parte di storia, confondo nomi e cognomi, ritrovo solo qui a pasquetta, di anno in anno. A volte più magri a volte più grassi, come me del resto. L'amicizia di cui sto parlando è un vento tiepido che entra sotto la maglia e ti rende immune dai rafreddori dell'indifferenza cittadina che da troppo tempo mi vortica intorno. Sono persone essenziali, dirette, che si muovono finalmente piano e che hanno la costanza di restare due, tre, quattro ore vicino alla brace per arrostire carciofi (grandi assenti dell'edizione 2016) salsicce, pancette, pane e pomodoro e, da quest'anno, foglie di limone attorno a tutto. Una nuova droga, un delirio di profumo che ha cominciato a foderare ogni pietanza: dal coniglio alle salsicce, bruciacchiando al calore e producendo tizzoni odorosi di costiera e vecchie zie. Mi sento voluto bene e circolo senza meta tra la cucina arredata con la dolcezza sicura di Chiara e il giardinetto dove quel bellissimo coltivatore-dalla-faccia-di-attore-americano di Gabriele ridisegna ogni anno percorsi di improbabili recinti per tartarughe, melanzane, antiche piante di calle, compostiere rigorosamente bio e legna da ardere. Il cibo allora diventa un modo per tenerci più stretti, per offrire all'altro la cosa migliore che sappiamo fare, per mettercela tutta a restare nel solco delle tradizioni con la dose di fiori d'arancio come diceva la nonna ma sconvolta dall'innovazione della cugina che non sappiamo perché sia stata ascoltata. E quando ti sembra che sia finita, quando il babà giace muto nella "guantierina", fiero del suo profilo a piede di elefante che mi ricorda sempre la mia prima comunione, ritornano le salsicce, le migliori della giornata, quelle lasciate ad arrostire da sole in un atto di autocoscienza culinaria a beneficio dei fuochisti che sono rientrati in cucina. E poi i "limoncelli" che però sono fatti con i cedri di Santa Maria del Cedro, il mirto con le bacche "colte" da Gabriele distrattamente in un giardino, con rosoli in bottiglie senza aspettative ma che aspetteresti tutta la vita per averne il contenuto. 
E io in tutto questo benessere do di mano alla mia natura, prendo la mia macchina fotografica e fotografo tutto, pezzi di pastiera, resti di pasta al forno, foglie costodi di pezzettini di coniglio, pastiere semisventrate, bicchierini, piatti unti di olio dal colore dell'oro, limoni e gelsomini profumati. Mi perdo con l'occhio, ma soprattutto col cuore, a immortalare questa semplicità, questa natura che è naturalezza, questa amicizia che si riflette nei vetri gialli di alcool. Mi sembra di fare una cosa importante, scattare delle fotografie "proletarie", dalla parte del popolo che mangia e non dei tipi che vendono, di fare una cosa giusta che deve restare, senza il segno dell'eleganza finta ma della vita vera. Delle foto che siano il nostro distintivo, la nostra memoria semplice e, perciò, rivoluzionaria e avanti.