martedì 1 dicembre 2020

Racconto di una ferita (mentre la ferita è ancora aperta).


Raccontare con la fotografia i centri storici mi ha attratto fin dagli anni della mia gioventù, prima ancora dell'ormai quarantenne terremoto. A spingermi in questa dimensione spazio-temporale credo sia stata la mia passione per il "silenzio narratore", tipico della fotografia di ricerca, unita poi alla formazione da archeologo sopraggiunta nei primi anni '80. Il fine mi sembrava nobile: la ricerca del più antico nascosto più o meno consapevolmente sotto al più moderno per dargli ancora una possibilità di vita, di espressione, di testimonianza, di insegnamento. Nello svolgere questo percorso ho naturalmente appreso molte cose ma sopratutto mi sono persuaso che le cose si vedono molto meglio – e quindi si riescono a raccontare con forza anche senza tante parole – attraverso il mirino di un apparecchio fotografico, rispetto allo sguardo comune a occhio nudo, diciamo così. Questo perché i frammenti di un passato più o meno lontano, isolati dai quattro bordi neri di quella piccola camera di osservazione posta in testa alle mie macchine fotografiche, risplendevano di una luce propria che conferiva loro in più esplicito valore. Anche agli occhi di quanti passavano e non vedevano ma che avrebbero visto le mie stampe fotografiche. Col passare degli anni questa mia attività, divenuta in certi periodi quasi un'ossessione, è andata scemando fino ad esaurirsi – irresponsabilmente, lo devo ammettere – sotto i colpi dell'indifferenza e della diminuita sensibilità dei più moderni cittadini e dei più moderni cittadini-amministratori rispetto ai valori invece eterni insiti nei beni culturali nel loro complesso e quindi primariamente nei centri storici. 

La fotografia non aiuta a leggere le complessità di un disegno urbanistico e tanto meno riesce a farlo nello stretto di un centro storico come i Pianesi di Cava de' Tirreni che costituiscono uno dei nuclei più caratteristici e antichi della città composita. Gli spazi sono spesso angusti, articolati, intersecati, nascosti, ma portatori di storia e di storie che nei centri detti non casualmente "storici", ci stanno bene e ci devono rimanere per salvare un bene essenziale: la nostra identità. La perdita di sensibilità di cui parlavo prima ha invece comportato un abbassamento sulla bilancia dei valori contemporanei del valore di questa identità, inducendo alla conseguente ammissibilità della cancellazione. Cancellazione di superfici, di tecniche murarie, di volumi, di luci, di singoli elementi architettonici e decorativi, di omogeneità tra gli elementi di arredo, di percorsi per gli spostamenti, di verde, di testimonianze che l'abbandono aveva ridotto minime ma un tempo non lo erano, di bellezza del colpo d'occhio.

Tutto ciò è condensato spettacolarmente nell'ampio cratere che ho visto ieri percorrendo la via Formosa, praticato per la creazione di un garage, mi hanno detto, ma non mi importa nemmeno sapere se questo dettaglio sia veritiero o meno. Troneggiante una ruspa su uno sfondo che lasciava emergere – al posto del romantico muro antico con esedra, brutalmente abbattuti – pareti possenti di cemento armato, mi sono tornati in mente gli scatti che facevo da ragazzo quando si abbattevano e si sfregiavano edifici antichi e testimonianze di varia tipologia per far spazio nella nostra città a una modernità quanto meno discutibile. 

Ma perché racconto ancora oggi tutto questo? In fondo in fondo... non lo so neppure io. In un capovolgimento così spettrale dei valori che oggi sembrano importanti una testimonianza del genere non credo possa avere un effetto significativo né su quello che si è già abbattuto né su quello che ancora rimane più o meno in piedi. Forse lo racconto per quei bambine quelle bambine che ancora potrebbero capirlo quando qualche maestra volenterosa parlerà loro della storia e di quello strano concetto dell'identità.




martedì 28 aprile 2020

DOPO. Quasi uno scioglilingua.




Esiste un DOPO che inesorabile sarà figlio di un PRIMA e noi li osserviamo succedersi giorno dopo giorno da quel DURANTE che viviamo come OGGI. Quasi uno scioglilingua. Un gioco di parole che traduce il principio ispiratore della mia fotografia sociale, della mia vita d'artista e della scelta di utilizzare il linguaggio visuale come base di una narrazione che altrimenti non sarei riuscito ad esprimere e che ho ritenuto importante esprimere. 
La fotografia l'ho scelta – forse inconsciamente – perché quelle immagini create attraverso la fotocamera mi sono apparse fin da ragazzo potenti, vere, reali, oggettive, testimoni e testimoniali. L'ho scelta fin dal 1978 perché conteneva qualcosa che per me era più forte delle parole, un mezzo a me congeniale per esprimermi dal mio angolo di ragazzo timido. 
La narrazione fotografica mi piace perché è un sistema. Non è un mazzo di episodi isolati – anche esteticamente rilevanti – raccolti in un album, ma una catena che lega fatti, scene, momenti che risalgono al DURANTE, cioè dell'epoca in cui un dato fenomeno è ancora in via di formazione, e che si sposteranno in pochi secondi in un DOPO inesorabile dal quale, guardandoli, si rivedrà – a volerlo vedere – quel PRIMA in cui c'eravamo ed eravamo vivi. Come ogni racconto veritiero. Come la storia. 
Per coltivare questo interesse per lo sguardo-che-può-raccontare qualcosa mentre sta nascendo sotto i nostri occhi ho cercato di sollevare l’inquadratura, cambiando spesso prospettiva, ottica, punto di messa a fuoco e mi sono persuaso che i singoli fenomeni dell'OGGI non hanno nulla di interessante se li distacchiamo dal sistema che li genera, li plasma e li condiziona a prescindere da noi. 
Una volta, in un'antica e solenne chiesa napoletana, ho ascoltato un prete che diceva, con ardore, quasi con furore, che "Gesù era di parte" "Gesù ha deciso da che parte stare". Anche a me che non sono credente quelle parole sono sembrate subito straordinarie, illuminanti, inusuali. Da che parte stare? Anche noi, fatte le dovute proporzioni, dobbiamo stare da una parte, prendere una posizione di parte. Essere partigiani. Le posizioni ambigue e neutre sono dunque colpevoli. 
Attraverso la mia fotografia sociale ho scelto di stare dalla parte del silenzio, delle cose non dette, dello sguardo girato altrove e ho scelto di raccontare storie complesse, stratificate, non immediate, perché le storie semplici, spettacolari, estetiche mi apparivano incomplete, bugiarde, non di parte appunto. Tuttavia, per fare questo ho dovuto accettare il peso di una gabbia – prospettica e di pensiero, individuale e sociale – che si è rivelata ingombrante, pesante, a volte troppo pesante da sopportare, una gabbia che rischia di rendere il racconto del "sistema-mentre-il-sistema-si-forma", difficilmente attuabile, pesantissimo, in alcuni casi può risultare addirittura fatale, come la storia di Pasolini ci insegna. 
L’uomo contemporaneo non è cieco e non è sordo. Percepisce, vagamente o distintamente, i legami che tengono stretti gli embrioni dei fenomeni fin dal momento in cui appaiono per la prima volta: nulla ci è stato taciuto. Sappiamo tutto, ma troppo spesso non abbiamo provato o non abbiamo voluto mettere a fuoco questo legame tra il PRIMA e il DOPO, forse per dolore, debolezza, vigliaccheria, malafede, ignoranza. Non abbiamo tenuto in nessun conto questo processo di sguardo vigile sul DURANTE come un bene primario anche perché abbiamo sperimentato che le conseguenze di questa parte non presa appariranno forse nel DOPO e quindi non sono apparentemente affari nostri, nessuno ci chiamerà a rispondere di niente o ci chiamerà a rispondere quando saremo vecchi o morti. 
E così il racconto globale della contemporaneità si scrive da solo, sgrammaticato, sconclusionato, senza una trama apparente, senza giustizia. Ci appare, visto dal DOPO, incomprensibile, irresponsabile, sciagurato.
Questa epidemia imprevista, figlia di tante decisioni del PRIMA, ci ha mostrato la nostra nudità, ci ha svelato la nostra ottusità nel vivere il DURANTE senza pensare al DOPO e solo ora che siamo nudi e chiusi in casa diciamo non senza ipocrisia che è necessario cambiare, mentre tutte le cose che guardiamo ora ci appaiono sbagliate, colpevoli, dannose, irresponsabili.
Eppure noi c’eravano, abbiamo attraversato quel PRIMA seguendo il percorso della massa, abbiamo sostituito e confuso il benessere collettivo con il profitto, anzi con il profitto a ogni costo, due categorie che parlano lingue diverse, quella dei diritti e dell'uguaglianza da una parte e quella dell'esclusione e dei privilegi dall'altra anche se questi ultimi si sono dimostrati spesso effimeri, superficiali, caduchi e sono durati solo qualche attimo, quell'attimo in cui avremmo potuto e dovuto scattare quella foto del PRIMA inquadrata nel DURANTE per costruire un DOPO diverso.  Quasi uno scioglilingua.
   
Napoli, 25 aprile 2020







mercoledì 25 marzo 2020

Che bel fior!

Scrivo in memoria e in ringraziamento a Patrizia Reso scomparsa in questi giorni a Cava. In questi giorni sconvolti in cui tutto è saltato e si è fermato, come il suo respiro. Le dedico un verso di Bella ciao e una delle mie foto più intime scattate in uno dei roseti più belli del mondo, quello della Villa Reale di Monza. Perché ci vogliono pensieri alti quando si onora una persona, una donna che è stata ai miei occhi innanzitutto una militante. Militante al posto mio, al posto tuo, al posto di tanti e di tante che l'hanno guardata fare ammirandola, ignorandola o non comprendendola affatto, a seconda della nostra capacità di vedere. Le dedico dei fiori bellissimi perché me la ricordo quel 25 aprile di due anni fa a cantare Bella ciao nella Villa Comunale di Cava mentre si piantava un acero a cavesi resistenti, cavesi partigiani che nemmeno sapevamo che ci fossero stati, ad altri uomini e donne che avevano militato al posto mio, al posto tuo e al posto di tanti e tante che li avevano solo guardati morire e che Patrizia aveva contribuito a farci conoscere. La militanza è quella disciplina dello spirito che possiamo raccogliere da Patrizia e farle onore mettendola al primo posto delle nostre vicende future, del nostro sentire, del nostro vivere, se vogliamo che domani sia migliore di ieri. La militanza che non è "mettersi in politica" ma "fare politica", cioè pensare con i mezzi a nostra disposizione a tutte quelle azioni e quei gesti grandi e piccoli che possiamo compiere in nome di altri e di altre, per aiutare, salvare, incoraggiare, far progradire, proteggere, difendere la collettività ma anche allontanare, combattere, mettere in condizione di non nuocere chi invece lotta contro di essa, contro i diritti e per i privilegi di pochi. Paradossalmente, la ricordo come una militante antifascista ad oltre 70 anni dalla fine del fascismo, a significare che non abbiamo fatto abbastanza per non doverne parlare più, che non abbiamo lottato per sradicare quella categoria dello spirito che può albergare in ognuno di noi e che può sempre riemergere e mai tramontare se la militanza non diventerà un bene comune, valore primario, intramontabile appunto. Non dobbiamo avere vergogna della militanza, di esprimere i nostri sentimenti collettivi, di parlare più spesso del bene comune, dei diritti, delle nostre piccole possibili lotte per stare meglio tutte e tutti insieme. Non è affatto facile, non è stato facile e non sarà facile perché abbiamo dimostrato di essere deboli, di guardare e di vivere troppo spesso nell'oggi, pensando che la libertà, i diritti, l'eguaglianza, il benessere delle comunità sia un dono del cielo, qualcosa che non tocca a noi difendere e promuovere, pensando che il domani sarà garantito e che sarà migliore, che i diritti, la pace, le conquiste di ieri saranno intramontabili. Invece tutto può tramontare su quel bel fiore se il nostro canto di partigiani non sarà sussurrato tutti i giorni della nostra vita. Bella ciao!