martedì 26 marzo 2013

Degli stereotipi, della mafia e dell'artista caduto nel clarinetto

Sono anni che studio la velenosità degli stereotipi nel campo della cultura della violenza sulla donna e della sua continua marginalizzazione nella falsa emancipazione di massa. Tuttavia, sempre più spesso in questi mesi sto riflettendo sulle categorie mentali dello stereotipo e del preconcetto estesi a ogni campo della nostra vita nella società dell'informazione fasulla, nella società dove – forse non a caso – a milioni votano per i delinquenti. 
Tutto è contestuale, dicevano i miei maestri. E il contesto nel suo insieme oggi è scaduto, decaduto, caduto. Noi cittadini, tutte e tutti, siamo diventati la sintesi di un pensiero già misero, la prevedibilità comoda della ripetizione di un'eco, la stanca assunzione di un copione dei potenti banalizzato a copioncino per i peones. E noi camminiamo a piedi! Scalzi.
Non c'è più ufficio, scuola, consiglio, condominio in cui il mondo di dentro, qualunque esso sia, non tratti con sufficienza, arroganza, prepotenza e superficialità il mondo di fuori. Sempre più spesso mi capita di sentirmi dire da un Assessore Boeri di non ritenere di interesse per la cittadinanza milanese un progetto sulla mafia a Palermo senza nemmeno chiedermi di vedere, oppure di ascoltare da vicepreside di una scuola milanese che dichiara non realizzabile un mio intervento artistico sulla lotta alla mafia raccontata ai ragazzini senza nemmeno sapere di cosa io stia parlando, senza chiedermi niente, senza voler sapere: io sto dentro e faccio già fatica, tu resta fuori e non chiedermi niente. 
La miseria interna ci assale come edera alle caviglie, ci rende poveri e diffidenti, miseri e senza dignità. Altro che fratelli e sorelle buonasera. Noi diciamo tutti i giorni fratelli e sorelle affanculo! Di voi non ci interessa nulla.
E così io mi sfibro a collezionare foglietti con infinite serie di numeri di telefono di comuni e regioni d'Italia in cui persone da noi pagate per darci delle risposte non ci sono mai, sono sempre altrove, si stanno sempre occupando d'altro.
Sono inginocchio e con la faccia per terra, scrissi un giorno alla mia dolce amica Savina Dolores Massa, con ogni probabilità una delle migliori menti narrative dell'Italia contemporanea, per rappresentarle con una scena tangibile il mio stato d'animo d'artista indipendente prostrato. 
E me ne vado questuando – quando a fatica mi rialzo – di comune in comune, di segreteria in segreteria, di silenzio in silenzio. E come posso resistere? come posso rialzarmi? Come possiamo rialzarci? Ora, mia adorata Savina, sono seduto con il culo per terra e guardo il mondo da quaggiù: mi manca l'aria e poco sollievo mi viene solo dalle note del mio clarinetto. A volte sogno di esserci risucchiato dentro e di diventare tutt'uno con i tasti e i fori delle note, nascosto dalle chiavi e solleticato dal fiato che corre nel corpo sonoro dello strumento. Come ci rialzeremo Savina amata?  Sento l'immobilità che ci prende tutti e due e prende tutti gli altri come noi che non ce la fanno più. Mille volte abbiamo ricominciato a questuare e mille volte abbiamo sentito il fiato della porta che ci sbatteva sulla faccia o il silenzio di quelle che restavano mute e immobili senza aprirsi. Vorrei che tutti sentissero questo dolore nostro e lo socializzassero, cioè lo facessero loro e lo riducessero a pezzettini dandoci la mano. Ma le sorelle e i fratelli sono distratti, sono affranti, a loro volta sono in ginocchio e non sembrano ascoltarci. Io provo a lanciare ancora questa bottiglietta con un tappo malfermo nelle acque di questo cazzo di oceano della nostra vita. 
Ma forse non desidero più che qualcuno la trovi.  

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