lunedì 22 giugno 2015

Vitruvio, il faraone e la Fondazione

Vitruvio sarebbe contento! Vitruvio sarebbe contento? I moderni ormai tributano un omaggio all'architettura che potremmo definire estremo, altissimo, addirittura deferente. Le attribuiscono un valore a sé, svincolata dall'applicazione all'umano per cui è stata concepita e realizzata, come un sentimento sublime, come un altare luminoso dove svolgere rituali (incomprensibili a noi volgo), un'entità astratta – pur nella sua massiccia e devastante materialità – verso cui provare una soggezione addirittura esaltante: starci al cospetto ci lascia piccoli ma ci fa importanti, ci fa appartenere al mondo meraviglioso di quelli che sanno i nomi. 
I visitatori italiani e stranieri della Fondazione Prada di Milano in questa domenica 21 giugno, inizio fulgido d'estate, si perdono lentamente nello spazio architettato come piccoli astronauti: si spostano e si guardano intorno riflessi nel freddo dei cristalli, degli acciai a specchio, degli intonaci d'oro che rimandano le luci di un cielo milanese veramente meraviglioso.
Il personale in abbondanza è schierato senza smagliature ai posti strategici e si sposta rapido su una scacchiera invisibile indossando impeccabili divise d'ordinanza che conferiscono loro un aspetto di piccoli guardiani e guardiane severi. Si muovono o stanno, circondati dallo straniante silenzio dei volumi rotto appena da basse voci bisbigliate, come si conviene a un santuario.  
Ero venuto per visitare la mostra sulle ripetizioni di modelli scultorei nell'antichità (una mostra curata da uno dei miei miti culturali, stranamente impegnato in questa azione "fuori campo popolare"), ma non sono entrato. A 10 euro per poco più di un'ora ho deciso di non entrare. Sì. Oggi in via eccezionale il biglietto resta intero ma la Fondazione chiude alle 15. Nessuno te lo dice mentre entri. Nessuno te lo dice mentre fai il biglietto. A me lo ha detto un'amica che ho incontrato lì. Arrabbiata. In effetti, resto in coda qualche breve minuto e non sento mai nessuna delle hostess dire alle persone che fanno il biglietto intero che hanno meno di 2 ore per visitare 4 mostre e, addirittura, a due dicono anche che c'è il film da vedere. Nemmeno a me lo dicono finché non lo chiedo (questo almeno fino alle 13:15, momento della mia coda. Poi quando starò per andare via alle 14,15 sento che lo dicono e alcune persone ovviamente rinunciano. Altri pagano e corrono dentro).
Le hostess sono addestrate, come ormai accade in ogni luogo milanese alla moda, ad essere gentilmente scortesi e arroganti, al lavaggio delle mani, al rimbalzo delle lamentele. Chiedo se c'è una riduzione del biglietto ma mi risponde col sorrisetto – d'ordinanza anch'esso – che non è compito suo, non posso chiedere niente, non posso parlare con nessuno. Che loro lo hanno scritto sul sito bello grande e che IO non l'ho visto. Lei e le sue colleghe lo hanno visto vero? Prima di uscire di casa ho guardato il sito per vedere gli orari e non c'era scritto niente, ma lei questo non lo sa perché il sito ha possibilità di accesso da due tipi di ricerca. Se cerchi "Milano Fondazione Prada" ti manda a questa pagina http://www.fondazioneprada.org/visit/visit-milano/ dove NON c'è scritto niente. Se invece cerchi Fondazione Prada Milano ti rimanda a un'altra pagina dove effettivamente ho trovato poi che c'era scritto http://www.fondazioneprada.org/. 
Ho l'impressione, come ho già avuto modo di pensare in passato in situazioni analoghe milanesi, che chi sta dentro si senta un po' superiore a chi sta fuori, anche se fa la hostess a 800 euro al mese con – forse – un contratto a progetto (ma qui non so come funziona il job job).
Lascio la biglietteria e esco all'aperto. Mi siedo al sole negli spazi di cemento, vetro, ferro, alluminio, specchi, tozzetti di legno immersi nella sabbia, materie tagliate in ogni forma per concorrere a un'architettura, diciamolo pure, performante assai.
Le persone fotografano ossessivamente tutto quello che possono, naturalmente coi telefoni, si fanno ritratti allo specchio (come se non ne avessero uno a casa, ma qui è qui!), scattano competenti foto ai dettagli architettonici, ai tubi, alle scale, alle lamiere, alle passerelle traforate, ai bagni con 4 rotoli di carta igienica che scendono a secondo del peso specifico di ognuno dettato dalla quantità di carta (geniale!!!!). Fotografano tutto e lo mandano agli amici! Addirittura una ragazza all'uscita fotograferà i manifesti pubblicitari che stanno come giganti per strada. Per fortuna fanno tutto in silenzio. 
Ero venuto per fotografare i marmi con la machina con la pellicola, volevo sentirmi un po' a casa, ma resto amareggiato e non scatto niente. Sono seduto sotto un albero tarchiato e immagino di avere accanto Vitruvio e discutere con lui. Certo, non possiamo immaginare cosa direbbe un uomo di tanti secoli fa davanti a una faraonata del genere in cui l'elemento uomo non sembra al centro della storia. Non lo so. Gli chiederei se è d'accordo con me, semplice uomo dentro l'architettura, che il progetto sembra escludermi, estraniarmi, sembra sopravanzare l'uomo, sopravanzare me.  Aspetto la sua risposta e sono quasi le due.
I visitatori continuano ad entrare dai cancelli apertissimi. Ritorno dentro. Giù. Ritiro lo zaino e approfitto per chiedere alla guardarobiera perchè non mi ha avvertito nemmeno lei quando ho depositato lo zaino che avrebbero chiuso prima. Mi risponde candida che oggi chiude prima (a prezzo sempre intero) perché c'è un evento della moda. Lo dice come se fosse un evento soprannaturale, irrefutabile, imprescindibile, divino quasi. Le chiedo come mai non mettono un cartello, una fotocopia per quelli che sono usciti meschini di casa senza prima collegarsi a internet e mi dice che "non è nello stile Prada mettere i cartelli". Esco sconfitto e muto. Chissà cosa avrebbe pensato Vitruvio dello stile Prada.
Me ne vado in bicicletta e arrivo a viale Umbria dove credo di aver beccato un funerale cibernetico, fantascientifico: macchine nere a profusione, pulmini neri, persone giovani (femmine) e adulte (maschi) tutte vestite di nero. Serissime e impassibili stanno per strada dappertutto. Aprono le portiere nere dalla seconda fila e faccio fatica a passare vivo sul viale dove si sta tenendo questo funerale faraonico. Si vede che oggi è la giornata dei faraoni. Invece capisco che si tratta anche qui di un evento. Si un magnifico evento dedicato alla vendita dei vestiti italiani cuciti all'estero a persone che probabilmente risiedono in maggioranza all'estero. Chiedo ai due vigili che sono lì a sorvegliare il funerale faraonico perchè non liberano la strada e garantiscono la sicurezza ai passanti sul viale, mi risponde che non può perché sono lì per salvaguardare l'incolumità dei cittadini che passano davanti all'evento, non sulla corsia opposta e che sono pagati dalla ditta dei vestiti e che sono solo due e che ce ne vorrebbereo almeno otto ma i privati non vogliono pagarne otto e che non può menneno chiamare la centrale con la radio perchè tanto un'altra macchina non gliela mandano e che ho ragione ma che non può farci niente.
Anch'io non posso farci più niente. Faccio accomodare Vitruvio sulla canna della bicicletta e lo invito a mangiare in un all you can eat cinese.

mercoledì 18 febbraio 2015

Famà che torna in Africa


Il 3 maggio 2010 ho postato un testo dal titolo Famà http://icofotografico.blogspot.it/2010/05/fama.html in cui raccontavo un episodio della mia vita che mi ha regalato una grande felicità. Era l'incontro con un uomo venuto da lontano, dal Senegal, che da allora è diventato uno dei miei più grandi amici.
Oggi scrivo di nuovo di lui perché questa mattina è successa una cosa tremenda che da tempo sentivo e temevo: mi ha chiamato al cellulare, con voce triste, dicendomi che aveva deciso di tornare in Africa. Per la prima volta gli ho sentito pronunciare questo nome geografico; le altre volte aveva sempre detto Senegal. Non so perché lo abbia fatto, forse perché la sua grande terra lo sta chiamando per salvarlo dalla nostra e lui le rende un tributo ancestrale, antico come le lacrime che gli bagnavano gli occhi di mogano stamattina davanti alla farmacia di via Maiocchi. Già altre volte mi aveva detto che avrebbe voluto tornare, ma che lo avrebbe fatto solo dopo aver ottenuto il permesso di soggiorno, in modo di poter rientrare in Italia liberamente. 
Allora abbiamo messo insieme dei soldi, tanti, per fargli versare i contributi per l'emersione da un lavoro nero inventato (lui che di lavoro non ne ha mai avuto nemmeno uno nero) e li ha versati puntualmente dopo che un amico lo ha iscritto in un libro paga aziendale di cui lui ignora persino l'esistenza. Ha versato contributi al sistema previdenziale italiano con soldi che altri suoi connazionali ed io, insieme al mio fratello Pino, gli abbiamo regalato. Sì, perché ho imparato che loro sono abituati così: se ti servono dei soldi io te li do. Non importa se sono povero o ricco: se ne ho pochi te ne do pochi, ma lo faccio come si fa una cosa naturale. 
Insieme abbiamo passato tantissimo tempo, forse più di quello che io abbia trascorso con qualsiasi altro mio amico maschio in tutta la vita. Ci siamo raccontati la vita e gli ho insegnato un lavoro, il mio lavoro. L'ho portato con me a montare le mie mostre in giro per l'Italia, dandogli quella dignità di uomo e di lavoratore che gli spettavano molto più delle mortificazioni del venditore di collanine. Ho rischiato per lui e con lui introducendolo in luoghi di lavoro pubblici senza alcuna copertura assicurativa e senza alcun permesso di soggiorno: clandestino lui, incosciente io. Ma siamo stati felici, abbiamo riso, ci siamo confidati pensieri, ho suonato per lui le nenie del suo paese per farlo sentire come a una festa in mezzo alla sua famiglia. Ora tutto questo deve finire perché "non va bene questo" come lui ripete sempre. Ha finito da tempo di vendere accendini che nessuno gli compra più e anche le piccole elemosine sono estinte. Non va bene questo, me ne devo tornare in Africa. 
Non ho tempo per pensare a me e a quello che sto perdendo. Ora devo fare delle altre cose per lui. Presto. Devo mettere insieme i soldi per permettergli di acquistare il biglietto aereo di linea e farlo tornare al più presto al suo paese, dignitosamente, senza poliziotti alla frontiera e senza problemi al rientro a casa, come se fosse stato un viaggiatore di un lungo viaggio in un paese che non aveva niente per lui. 
Se io potessi farlo da solo, domani mattina Sidì sarebbe già su un volo che lo riporterebbe dopo tanti anni a casa da sua moglie e da un figlio che poco ricorda. Pronto a partire con i suoi 23 + 23 kg di bagaglio da stiva e 8 kg di bagaglio a mano, perché, come tutti i migranti, sa già tutto delle compagnie aeree e dei loro regolamenti bagagli. Ma questo biglietto non posso pagarglielo io. Non da solo. Non ce la faccio più neanche io. Posso solo chiedere a tutti gli amici e le amiche che lo hanno conosciuto in ICHOME di aiutarmi ad aiutarlo. Aiutarmi a mandarlo via da qui al più presto. Ognuno metta insieme quello che sente di poter offrire e lo consegni a me che lo consegnerò a lui. E lui se ne tornerà alla sua Africa, così com'è venuto quella volta da me, con un passo lento e il sorriso di un uomo buono.

giovedì 15 gennaio 2015

La bella e le bestie

Prima di entrare dal vicolo in salita in Via Garibaldi di Genova chiedo alle mie allieve e ai miei allievi di fermarsi un attimo prima di svoltare: volevo introdurre loro il concetto della "sorpresa" nella fotografia d'autore, rispetto a uno scenario magnifico, sorprendente, unico che sta per aprirsi ai nostri occhi e che finora è sfiggito alla nostra conoscenza. 
Si fermano poi ripartiamo ed entriamo nella strada più bella d'Italia (tra quelle che io ho visto finora e secondo la mia opinione). Lo stupore è quello prevedibile e la percorriamo in lungo e in largo prima annusandola, poi fotografandola dopo pranzo. 
In questo ultimo momento di riprese libere sul tema della strada in questione anch'io punto il naso all'insù e capisco cosa mi aveva infastidito fino a quel momento: le luminarie natalizie, non tanto in se stesse, quanto piuttosto nella maniera in cui erano fissate ai palazzi. Corde, cordine, cordoni, lacci e laccetti disordinati e orrendi deturpavano in un momento di massima affluenza turistica le parti basse delle facciate dei magnifici palazzi. Le parti basse, cioè quelle più vicine al visitatore. Affreschi e sculture compresi. 
E allora la sospresa vera e propria è stata quella di scoprire come anche un patrimonio di tale grandezza (UNESCO) sia affidato – in un tentativo di addobbo e di presuto abbellimento – all'attività cialtrona e incurante di qualcuno che ne è responsabile ma responsabile non dovrebbe esserne. Non è colpa dell'operaio che lega, tira, arrotola ma dei funzionari, architetti, sindaci e vicesindaci che tutte le mattine passano di là e non ci trovano evidentemente niente di strano. Il municipio è esattamente lì.
Restiamo sorpresi. Fotografiamo. Raccontiamo. Chiamiamo a rispondere. Insomma, facciamo politica con la macchina fotografica. Liberamente.